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Introduzione al diritto di famiglia (I parte)
Le pagine che seguono sono la trascrizione di una lezione introduttiva sul diritto di famiglia, che compiutamente possono essere lette nei Cenni introduttivi del volume Manuale del nuovo DIRITTO DI FAMIGLIA Casa Editrice La Tribuna, 2002, pagg. 1408.

1. Premessa metodologica.
In nessun campo del diritto civile, come in quello del diritto di famiglia, si avvertono così chiaramente le dinamiche tipicamente conflittuali della realtà sociale sottostante.
Il primato del diritto di famiglia sotto il presente profilo si spiega innanzitutto partendo dalla definizione che, sin dall’antichità, è stata riservata a quest’istituzione: seminarium rei publicae. Se la famiglia rappresenta la cellula germinale della società, è naturale che al suo interno si riproducano, sia pure “in miniatura”, le tensioni sprigionate quotidianamente nel contesto civile. Inoltre, la sua natura di gruppo tipicamente intermedio - che funge, cioè, da trait d’union tra le aspirazioni autodeterministiche del singolo e la realtà esterna - mette in evidenza la funzione di filtro da essa assolta, con tutte le conseguenze che ne derivano, specie in termini di saturazione da residui “tossici”. Infine, il suo assetto naturalmente plurisoggettivo dà conto delle difficoltà organizzative che da sempre ha incontrato, nella perenne alternativa tra ispirazione gerarchica e conformazione egalitaria.
Si comprende, pertanto, il motivo per cui qualunque trattazione dell'evoluzione del diritto di famiglia non può essere soltanto una esposizione del succedersi di regimi normativi, ma è innanzitutto una storia del fenomeno sociale famiglia. E si intuisce, altresì, come, soprattutto sul presente terreno, il giudice non possa ridursi a bouche de la lois, ma partecipi attivamente e con contributo creativo al processo di individuazione della norma applicabile alla vicenda concreta. Nella moderna teoria dell’interpretazione questo fenomeno viene definito con la suggestiva espressione “precomprensione”. In una prospettiva di psicologia giudiziaria, la quale si propone di isolare i passaggi in cui si articola l’attività interpretativa - del giudice innanzitutto e degli altri giuristi in seconda battuta -, si è rilevato che costui non può essere pensato realisticamente come una tabula rasa: egli non legge un enunciato normativo e lo comprende neutralmente, bensì carica la disposizione - sia pure nei limiti consentiti dalla sua lettera e, quindi, dalla semantica - del complesso di significati che le ascriverebbe la comunità in relazione - si intende - alla necessità di risolvere in modo giusto il caso di specie. In definitiva, la precomprensione - che è scevra sia dall’irrazionalismo delle teorie soggettivistiche che dalla autoreferenzialità delle teorie oggettivistiche dell’interpretazione - si sostanzia nel complesso delle valutazioni diffuse sul caso da decidere, dalle quali l’interprete “è in larga misura influenzato [...] perché formano, per così dire, l’ambiente stesso in cui è radicato, il suo habitat sociale.”.
Alla luce di tali rilievi dovrebbero emergere le peculiarità del rapporto tra diritto di famiglia e precomprensione: se la famiglia, quale microcosmo esistenziale, è il luogo di svolgimento di conflitti incessantemente moderati e fomentati dai consociati in base ai bisogni contingenti della quotidianità, e se tale intreccio costituisce il quadro di riferimento privilegiato nell’applicazione del diritto, ne deriva che l’interprete, ed in particolare il giudice, sarà costantemente sottoposto ad una sollecitazione valutativa che, per la sua naturale mutevolezza, renderà problematica la giustificazione razionale delle più elementari decisioni.
In questo campo, infatti, gli aspetti giuridici si intrecciano in maniera quasi inestricabile con la natura degli interessi coinvolti e con le continue trasformazioni del substrato sociale sul quale vengono a incidere, costringendo il legislatore prima e l'interprete poi, ad un continuo confronto con sollecitazioni e valutazioni di tipo extra-giuridico. L'applicazione della norma, allora, ridonda sempre dell'influenza del bagaglio culturale - e talvolta emotivo - di colui che quella norma deve applicare. E ciò per un triplice ordine di motivazioni: in questa materia il substrato normativo è costituito da interessi che appartengono alla sfera emozionale piuttosto che, come accade in altri campi del diritto civile, da interessi di consistenza squisitamente patrimoniale; le stesse disposizioni normative si presentano spesso formulate in maniera volutamente generica, lasciando ampi spazi alla sensibilità dell'interprete; molto spesso, infine, accade che l'interprete abbia a confrontarsi con esperienze - come quelle che coinvolgono i rapporti interpersonali - che ha vissuto in prima persona e di cui conosce la portata emozionale prima ancora che giuridica.
Questa premessa metodologica vale a spiegare l'impostazione di fondo del presente saggio introduttivo, volto a cercare di lumeggiare l'influenza che sull'evoluzione del regime normativo della famiglia hanno dispiegato l'evoluzione sociale della famiglia stessa, da un lato, e le mutevoli prospettive ermeneutiche adottate dagli interpreti, dall'altro.

2. La codificazione del ‘42.
Alla luce delle osservazioni svolte sembra interessante tentare un approccio sociologico al fenomeno famiglia. La netta scissione tra prospettiva sociologica e prospettiva normativa risponde al preciso intento di dimostrare che tra le condizioni di effettività di ogni disciplina normativa, ossia tra i requisiti necessari ai fini della sua pratica attuabilità, bisogna in primo luogo annoverare la sua consonanza al fenomeno da regolare; metaforicamente il diritto può, sotto questo profilo, paragonarsi ad un guanto, il quale calza tanto meglio la mano che lo indossa, quanto più le rispettive misure si rivelano coincidenti. In altre parole, elaborare una disciplina della famiglia assumendo a referente un modello organizzativo diverso da quello reale significa predisporre un complesso di regole destinate ad entrare in incessante conflitto con i bisogni reali. E’ per questo che i soggetti deputati a produrre diritto dovrebbero, mai come in questo campo, conoscere attentamente ed in tempo reale le peculiarità dell’ambito in cui è destinata a rifluire la futura disciplina, se del caso attraverso l’ausilio di scienze quali la psicologia o la sociologia.
In linea di prima approssimazione, si può osservare che la famiglia è una istituzione sociale universalmente diffusa, la quale si diversifica in una molteplicità di modelli di riferimento e che, proprio per tale duttilità, sfugge ad una definizione di carattere generale e onnicomprensivo.
Alla base dell'istituto familiare si rinviene un'esigenza primaria dell'essere umano rappresentata dalla tensione verso forme di vita “aggregata”: in quest'ottica può dirsi che la famiglia è la prima elementare struttura sociale dove egli esprime la sua natura di “animale politico”. Nella famiglia, tuttavia, prima ancora che il più generico anelito alla “socialità”, si realizza un più specifico e primordiale bisogno, quello che si esprime nell'insieme di aspirazioni legate alla riproduzione della specie, alla sessualità, all'educazione e allevamento della prole. Non c'è, dunque, alcuna società nella storia che non abbia prodotto una regolamentazione, anche rudimentale, dei rapporti tra uomo e donna e che non abbia provveduto a definire in termini giuridici il vincolo che lega questi soggetti e che da loro si estende alla prole. Ogni società, peraltro, ha al suo interno contemporaneamente diversi modelli di famiglia, poiché, soprattutto nella società pluriclasse, ogni gruppo elabora il proprio modo di soddisfare i bisogni di affettività, sessualità, riproduzione. La famiglia, quindi, si rappresenta come topos, come luogo e comunità fisica e sentimentale tra l’uomo, la donna e la loro prole: scorrendo le diverse esperienze storiche emerge un comune tratto caratterizzante che si risolve essenzialmente nella presenza di una struttura unitaria, la quale opera come riferimento per i suoi componenti sia dal punto di vista economico-sociale, in quanto essi vi rinvengono una serie di servizi necessari per il proprio sviluppo, sia dal punto di vista psicologico, perché essa costituisce il luogo di attuazione di relazioni interpersonali e di esigenze attinenti alla sfera emotiva.
La famiglia, quale istituzione di base di ogni società, nasce in senso proprio solo nel seno delle civiltà che decisero di costituirsi in gruppi organizzati ed omogenei. In particolare, nell’antica Grecia e nell’antica Roma, rispettivamente, l’oikos e la familia offrono un chiaro esempio di nuclei parentali stabili. E’ noto, peraltro, che le ampie dimensioni di questi gruppi non consentono di accostarli propriamente alla moderna famiglia. Per quanto riguarda l’oikos, la sua vocazione naturale era difensiva, per cui essa rappresentava una mera articolazione di strutture più ampie come il genos e la fratria. Caratteristica peculiare dell’oikos era da un lato il tacito ma allo stesso tempo forte vincolo di subordinazione dei suoi membri nei confronti del capofamiglia; dall’altro il suo assetto monogamico, nel cui ambito la donna svolgeva prevalentemente attività di educazione dei figli e di gestione dell’ordinaria amministrazione familiare, mentre ignota era qualsiasi forma di partecipazione alla vita extradomestica.
Caratteristiche simili erano riscontrabili nell'esperienza giuridica romana, dove la familia si identificava in un gruppo di persone, legate da vincoli di sangue o di altra natura, soggette all'autorità di un capo, il pater familias, il cui nucleo originario era costituito dalla famiglia naturale, fondata sul matrimonio e sul vicolo di sangue tra genitori e figli, al quale si aggregavano altri soggetti, come ad esempio gli schiavi. La connotazione tipica di questo istituto era, dunque, rappresentata dall'egemonia assoluta che il pater familias esercitava sulle varie persone che facevano parte del consorzio familiare e sul patrimonio ereditario. In termini giuridici ciò si traduceva nel riconoscimento al solo capofamiglia della capacità giuridica.
Con l’avvento del cristianesimo e dei connessi principi morali, da un lato, si consolidò il legame tra marito e moglie con conseguente avversione per il divorzio e, dall'altro, fu promossa la procreazione intrafamiliare da cui l’ostilità verso i figli naturali; ma i principali effetti del cristianesimo furono l’indebolimento della connotazione rigorosamente patriarcale della famiglia e la riduzione dell’area soggettiva di naturale estensione di essa.
Queste due ultime novità si riscontrano in particolare nella famiglia feudale, dove le classi popolari, ostili ad ogni assetto di promiscuità, ridussero usualmente la famiglia al gruppo parentale.
Nell’era moderna la famiglia conserva questa fisionomia e, pur continuando a porsi come seminarium rei publicae, tende sempre più a distinguersi nettamente dalla dimensione politica, nel senso che si mostra sempre più gelosa delle prerogative e delle funzioni che si è storicamente guadagnata, con conseguente negazione di ogni possibilità di usurpazione ad opera del potere statale. In breve, la famiglia iniziò ad esprimere la concezione della sfera privata dell’individuo, in contrapposizione alla sua proiezione pubblica nell’ambito statale. Contestualmente al tramonto della famiglia parentale, ebbe inizio il processo di emancipazione dalla concezione assolutistica della patria potestas. Il modello di famiglia che dal secolo scorso si è andato affermando è quello prodotto dalla società borghese, cioè quello vissuto e propagato dalla classe sociale che ha diretto il passaggio storico dalla società agraria a quella industriale.
Ma per cogliere appieno questi ed altri ulteriori sviluppi è imprescindibile una più ampia ricognizione sul quel periodo che forse più di tutti gli altri risulterà determinante per la formazione di correnti di pensiero sulla famiglia di disarmante attualità: punto di svolta della modernità tutta, infatti, la Rivoluzione Francese non ha mancato di incidere in maniera evidente sulla normazione di famiglia. A questo risultato pervengono, tra le altre, le osservazioni di Marcel Garaud che smentiscono l'assunto in base al quale la Rivoluzione sarebbe rimasta estranea ai rapporti intrafamiliari. Ad esempio, con la legge 20-25 settembre 1792, «il legislatore rivoluzionario secolarizza gli atti dello stato civile, nascita, matrimonio, morte, sino ad allora tenuti dal clero cattolico» (Volterra) e successivamente positivizza il frutto di alcune distinzioni concettuali tra il contratto di matrimonio ed il sacramento operate da giuristi laici e da canonisti, potendo quindi parlare, con l'impiego non casuale del termine seminario, di un contratto fondamentale «pour la formation de la République dont il est le séminaire». Ancor più incisiva è la celeberrima dichiarazione dell'Assemblea Costituente nella Cosituzione del 1791, articolo 7 del titolo primo, ove si legge la tesi della natura di contratto civile del matrimonio. A questa statuizione, lungi dal risolversi in una dichiarazione programmatica priva di efficacia reale, fa da contrappunto la legge 20 settembre 1792: «La consitution appelle le mariage un contrat civil» e «ses bases tiennent uniquement au droit civil et naturel et il faut bien se garder de confondre le contrat et le sacrement. Le mariage n'est donc qu'un contrat civil, et, si c'est contrat, c'est à la puissance seculière d'en régler les formes». La stessa legge introduce infine il divorzio, anche per mutuo consenso; l'istituto verrà abrogato sotto i Borboni nel 1816 e ricomparirà solo nel 1884 con la legge Naquet sotto forma di divorzio-sanzione. Fondamentale, poi, è la legge 2 novembre 1793 sancente l'uguaglianza del figlio naturale con il figlio legittimo, ammettendo i primi (se non adulterini) alla successione dei genitori. Tutto ciò legittima dunque il giudizio del Garaud, secondo cui «divorce facile, autorité paternelle partagée avec la mère et contrôlée par la justice, égalité de l'enfant naturel avec l'enfant légitime, plénitude de l'adoption, administration commune des époux, diminution des incapacité dues à l'âge, les exemples sont nombreux, dans le droit de famille, à témoigner du surprenant modernisme du législateur révolutionnaire».
A partire dalla seconda metà dell'ottocento, sono emerse in maniera dirompente sulla scena sociale nuove esigenze conflittuali con il modello tradizionale, manifestatesi nell'emancipazione della donna e nel suo ingresso nel mondo del lavoro, nell'affermazione del diritto all'autodeterminazione dei figli e nell'adozione di regole democratiche - a livello normativo - per il governo delle dinamiche familiari. Tali esigenze si traducono in una spinta antiautoritaria sia nel rapporto coniugale sia nei rapporti con i figli, nello sforzo di costruire la potestà genitoriale alla luce dello stesso interesse dei figli che essa mira a soddisfare.
Nonostante gli sconvolgimenti operanti nella base sociale, gli inizi del '900 vedono la formula hegeliana di famiglia come «organismo etico universale» metter radici nella cultura giuridica italiana: emblematica è l'opera di giuristi come Antonio Cicu, che rielaborano «l'essere etico della famiglia» (Hegel) in funzione del mantenimento del preminente momento del «dovere» su quello del «potere», a tal punto condotta da attrarre nella sfera pubblicistica il diritto di famiglia. Se è vero, a ben vedere, che Cicu non ha fatto del diritto di famiglia un tertium genus tra privato e pubblico (come vuole Messineo), innegabile è una contaminatio (Frosini) fra le due categorie, riconducendolo al significato di «diritto sociale».
La prima legge italiana del '900 in tema di famiglia, la legge 1776 del 1919 abolente l'istituto dell'autorizzazione maritale, non è stata in grado di evitare il formarsi di una tendenza dottrinaria espressa nelle parole del Fumaioli, datate 1936: «la tradizione è l'unica e suprema garanzia al mutar delle leggi laddove ogni brusca variazione è pericolosa: e soprattutto nell'istituto familiare, statico per natura, siccome più di ogni altro perenne, nel mutevole ritmo della vita sociale e dei suoi ordinamenti». Non mancavano neppure allora, però, voci dissenzienti. Nel 1930 Capograssi scriveva: «in definitiva matrimonio e famiglia non sono nell'ordinamento giuridico che una vera organizzazione di sacrificio, una esigenza perenne per il soggetto di sacrificare la propria tendenza di licenza e di vagabondaggio, la propria ripugnanza a rimanere prigioniero di una rete di doveri e di responsabilità». A ciò si aggiunga, a completamento del progressivo percorso di presa di coscienza delle implicazioni fortemente ideologiche che l'istituto-famiglia trascina con sé, la considerazione che, «come hanno dimostrato le note ricerche della Scuola di Francoforte», «terreno di cultura del dispotismo è sempre stata l'organizzazione familiare autoritaria e gerarchica». (Frosini)
Dell'esperienza giuridica occidentale - e quindi del modello della tradizione romana - è figlia la codificazione italiana del 1942, ancora improntata a una rigida concezione autoritaria e gerarchica dei rapporti familiari, dove tutto dipende dalla volontà del capo famiglia, dove figli e moglie sono accomunati in una posizione di subordinazione e inferiorità e dove nessun rilievo, o quasi, è riservato ai figli nati fuori del matrimonio. L'oggetto del diritto di famiglia è rappresentato dalla disciplina dei rapporti della cosiddetta famiglia nucleare, rappresentata dall'unione stabile di due soggetti e della loro prole legati da un intenso vincolo di solidarietà.
La scelta di questo modello è naturalmente coerente con le concezioni ideologiche di matrice autoritaria dell'epoca: se l'intenzione del legislatore fascista era quella di avvicinarsi alle istanze popolari, mostrando di contrastare l'ideologia individuale e liberista, doveva operare una inversione solo formale rispetto all'ispirazione borghese della codificazione del 1865 (Bessone). In quest'ottica, si scelse di accentuare notevolmente il rilievo della nozione di unità familiare e del principio di autorità, in nome di una malcelata visione paternalistica della famiglia, che consentiva allo Stato di ingerirsi all'interno dei rapporti familiari, non semplicemente in termini di supplenza o integrazione, ma addirittura molto spesso in funzione di direzione e controllo. Questa opzione normativa, infatti, lasciava intendere l'adesione, pur non dichiarata, all'idea che il diritto familiare non fosse tanto da ricondursi al diritto civile quanto, più correttamente, da intendersi come una branca del diritto pubblico, proprio a sottolineare la soggezione dei rapporti familiari al controllo dello Stato che così mostrava di voler rendere la famiglia il suo primo e basilare nucleo fondante.
Le linee di fondo della codificazione del 1942 sono costituite, guardando al rapporto tra coniugi, dall'affermazione del ruolo dominante del marito nei rapporti con la moglie, dalla connotazione di indissolubilità del matrimonio, dal riconoscimento della possibilità di separazione solo per colpa. Sul versante dei rapporti con i figli, restava rigorosa l'adesione al modello gerarchico, dove il ruolo di vertice era ricoperto solo dal padre, mentre la filiazione naturale, pur ricevendo maggiore riconoscimento che in passato, veniva disciplinata in maniera sfavorevole rispetto alla filiazione intramatrimoniale, come del resto emergeva già sul piano letterale dalla scelta di etichettarla come “illegittima”, in coerenza con la scelta di identificare la famiglia giuridicamente rilevante esclusivamente con quella fondata sull'istituto matrimoniale.
Due le questioni squisitamente giuridiche emerse all'indomani della codificazione tuttora vigente: la collocazione, per i motivi sopra accennati, di tale branca del diritto all'interno dell'ordinamento giuridico - se nel diritto pubblico o diritto privato -, e la natura del fenomeno familiare, se cioè questo individui una organizzazione giuridicamente rilevante nel senso di una sua entificazione e in modo tale da ravvisarne interessi suoi propri oppure se si tratti di una formazione intermedia (ex art. 2 Cost.) che l'ordinamento riconosce come preesistente ma la cui giuridica rilevanza resta confinata ad un ruolo strettamente strumentale, vale a dire deputata alla realizzazione della personalità dei singoli che ne fanno parte.
Attualmente si assiste ad un inesorabile processo di crisi della concezione tradizionale della famiglia, che si manifesta essenzialmente in due distinte fenomenologie: da un lato una spinta centrifuga verso la disgregazione della monoliticità familiare - tradotta, a livello normativo, nel riconoscimento dell’istituto della separazione prima e del divorzio poi -, dall’altro la proliferazione di modelli di famiglia che scardinano i tratti caratteristici essenziali del modello classico, determinandone il suo tramonto quale archetipo organizzativo (es. famiglia monista; famiglia omosessuale; famiglia di fatto; famiglia ricomposta). Ciò contrasta in maniera stridente con il modello normativo rigidamente ancorato al modello della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Questi brevi cenni danno conto delle diverse concezioni della famiglia che si sono succedute nelle diverse epoche storiche; ma anche della possibilità che pure in una medesima epoca e nell'ambito di una medesima area culturale possono venire in rilievo diverse accezioni dell'istituto. Ciò spiega perché è stato osservato che in questo settore della produzione giuridica è quanto mai importante che le regole del diritto positivo rispondano effettivamente alle prassi invalse e osservate sul piano sociale, se non si vuole che esse restino delle mere “proposte” di regolamentazione giuridica, in quanto incapaci di avere concreta applicazione. Un rischio di tal fatta è forse connaturato con qualunque intervento normativo in questo campo, sia per la velocità sia per l'incidenza delle trasformazioni sociali, soprattutto in un'era, come quella moderna, ad altissimo grado di complessità.

3. La portata innovativa della Costituzione
E' stato efficacemente osservato che ‘la famiglia disegnata dal codice del 1942 è una famiglia che nasce già vecchia (…) perché viene ad essere modificata, nella struttura, nei principi, nei valori e nelle scelte ideologiche allorquando, con la caduta del fascismo, si affermano e vengono normativizzati i valori che inaugurano la nuova repubblica costituzionale> (Ruscello). Nell'interpretazione del testo codicistico, dunque, è emersa da subito la necessità di adeguare tali norme al dettato della Costituzione, con tutte le difficoltà che derivavano dal fatto che nel testo del codice non vi fosse stato un sufficiente livello di maturazione interpretativa, stante la brevità del lasso temporale.
In conformità con una tendenza sviluppatasi nelle Costituzioni scritte tra le due guerre, la nostra Carta costituzionale dedica alla famiglia, ad apertura del titolo dedicato ai rapporti etico-sociali, alcuni articoli di fondamentale importanza, colmando quindi una lacuna della sistematica dello Statuto avvertita da più parti. Come emerge con chiarezza dagli Atti dell'Assemblea costituente, gli artt. 29, 30 e 31 conobbero, a causa della loro natura fortemente innovativa, la loro definitiva formulazione solo in seguito ad un travagliato dibattito in cui ai già delicati problemi di natura tecnico-formale si aggiunsero i contrasti prodotti da posizioni ideologiche contrapposte.
In effetti, con l'introduzione della Carta costituzionale si assiste all'ingresso di una serie di principi che scardinano il regime preesistente: all'art.29 della Costituzione si afferma per la prima volta il principio di uguaglianza, morale e giuridica, dei coniugi con l'unico limite della garanzia dell'unità familiare, nel riconoscimento pieno della famiglia come istituto giuridico e come società naturale, all'art.30 si prevede la massima tutela possibile per la filiazione extra matrimoniale.
L’elaborazione sistematica dei principi costituzionali del diritto di famiglia presenta una varietà di interpretazioni dovuta alla complessità della problematica, già evidente se si considera come la famiglia, istituto pregiuridico con aspetto proteiforme, rappresenti un ambito di esperienza assolutamente irriducibile agli schematismi della riflessione giuridica di tipo dogmatico.
Nonostante ciò la miglior dottrina costituzionalistica, prima ancora di quella privatistica, ha compreso in maniera incisiva la portata innovativa del dettato costituzionale, senza lasciarsi ingabbiare dal carattere indubbiamente compromissorio di buona parte delle disposizioni in esame che ha talvolta legittimato interpretazioni riduttive (per non dire paralizzanti) della volontà del costituente.
Se è innegabile una posizione di privilegio assegnata alla famiglia legittima, intesa come «forma giuridica della convivenza di coppia obiettivamente insuperabile per garanzie di certezza, stabilità dei rapporti e serietà dell'impegno» (Schlesinger), fondamentali sono gli spunti intesi a ricostruire la tematica della famiglia in vista di un disegno unitario di sviluppo della personalità dei singoli individui, facente leva sulla nozione coordinata di famiglia-formazione sociale, emergente dal combinato disposto degli articoli 2 e 29. La tutela dei diritti inviolabili del singolo e garanzie di autonomia della famiglia non possono prescindere da una considerazione più ampia delle inequivocabili scelte di politica legislativa operate dalla Costituzione, con particolare riferimento alle esigenze di “trasformazione giuridica” della donna e di un complesso di disposizioni volto a determinare uno “statuto dei diritti dell'infanzia e della gioventù”.
Non è pensabile, quindi, il disegno tracciato dal costituente in tema di famiglia prescindendo dalle considerazioni emergenti dagli articoli 3, secondo comma e 2 così come necessariamente integrati dagli articoli 31, secondo comma, 36 e 37, tutti riunificati concettualmente dalla tutela funzionale della persona e del suo sviluppo quale necessariamente filtrato da istituzioni sociali (anche lavorative) di base.
Le norme costituzionali dedicate alla famiglia hanno carattere immediatamente precettivo e non possono autorizzare nessun tipo di interpretatio abrogans non in sintonia con la loro portata effettiva. Si può in merito affermare che un generale consenso sulla natura certamente precettiva delle norme in esame, si acquisisca solo a partire dal 1966, a seguito del mutato orientamento della giurisprudenza costituzionale (su cui, v. infra). Ciò rappresenta comunque solo una tappa di un lungo e complesso procedimento interpretativo che ha impiegato con funzioni sinergiche dottrina, giurisprudenza ordinaria e costituzionale ed opinione pubblica: se infatti è per sua natura mutevole la famiglia-istituzione, maggiormente mutevoli sono le norme costituzionali al riguardo, stante la loro natura di direttive ‘in continuo divenire, sempre aperte agli sviluppi della storia ed ai suoi svolgimenti istituzionali’ (Bessone).
Ponendo mente a problemi di carattere più strettamente ermeneutico degli articoli 29, 30 e 31, è opportuno evidenziare le divergenti opinioni sulla norma qualificatoria della famiglia contenuta nell'articolo 29.
E' stato autorevolmente osservato come detta disposizione non abbia carattere definitorio, ma sia semplicemente ‘una definizione in senso improprio, condizionante l'applicazione’ delle norme seguenti (Grassetti). Ciò in vista della ancor più ardua ricognizione testuale in merito all'assunto che la ‘Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio’, fondamentale per stabilire la natura politica della relazione occorrente tra famiglia e Stato. Se autorevole dottrina non va oltre un'interpretazione nel senso di ‘assunzione di impegno dello Stato a non interferire nell'organizzazione interna dei rapporti familiari’ (Schlesinger), la chiave interpretativa da privilegiare potrebbe roteare attorno alla distinzione tra le concezioni di autonomia e sovranità della famiglia che differenti visioni della ‘società naturale’ autorizzano.
Non è un caso, ed è anzi la riprova del carattere di formazione sociale della famiglia, che analoghi dibattiti si siano riprodotti anche in merito alla formulazione del secondo articolo (si ricordino gli interventi di La Pira e Marchesi durante i lavori preparatori). Più attenta alla mutevole e molteplice dinamica dei rapporti intrafamiliari è certamente la concezione storicistica della famiglia che interpreta quest'ultima come ‘garanzia costituzionale di rispetto dell'autonomia familiare nel concreto interesse dei singoli ad ordinare in modo originale e libero i loro rapporti di famiglia’ (Bessone), lasciando spazio al mutare delle relazioni familiari in senso evolutivo della persona, sempre rispettosa delle posizioni di autonomia garantita.
La necessaria relatività e storicità dei principi di ordinamento della famiglia consegue infatti inevitabilmente all'evolvere sociale ed implica che il richiamo ai diritti della famiglia operato dal primo comma dell'articolo 29 non sia inteso come referente oggettivo di un superiore interesse dell'organismo-cellula dello Stato, ma più semplicemente ed aderentemente allo spirito della Costituzione come ‘garanzia cosituzionale di rispetto dell'autonomia familiare, nel concreto interesse dei singoli ad ordinare in modo originale e libero i loro rapporti di famiglia’ (Bessone). In sostanza, la “naturalità” della societas familiare contribuisce a qualificare la sua struttura come ‘storicamente aperta ai processi di revisione del suo regime di tempo in tempo occorrenti per conformare l'istituto alle esigenze di una formazione sociale assolutamente peculiare’, dove la concezione non autoritaria della vita familiare condivide con il ‘ primato della personalità’ il ruolo di norma chiave dell'assetto costituzionale.
Non minori problemi avrebbe incontrato l'articolo 29 ad affermarsi come norma immediatamente precettiva, dovendo fronteggiare accuse di vaghezza e genericità, da un lato, e di insufficienza ai fini del mantenimento del preminente valore dell'unità familiare dall'altro. Esemplare è l'affermazione di chi addirittura continuava a vedere nell'ordinamento giuridico italiano, con singolare inversione delle fonti tra Codice Civile e Costituzione, ‘uno status di coniuge-marito ed uno di coniuge-moglie’ (De Cupis). Pur essendo di tutta evidenza le direttive di fondo, volte a rimuovere quasi ogni residuo dell'autorità maritale, più difficile è tracciare un preciso confine di derogabilità al fine della tutela dell'unità familiare. Ma questo impegnativo compito è stato assolto in maniera sicuramente soddisfacente dal legislatore del 1975. Non vi è ombra di dubbio, ora più che mai, che la complessa ratio legis risultante dal disposto degli articoli 2 e 29 primo comma imponga la considerazione del ricorso a detta deroga come strumento assolutamente eccezionale, come extrema ratio e ciò ad onta delle autorevoli voci levatesi a proporre, ancora una volta, una interpretatio abrogans che avvilisce il dato positivo.
Non va del resto trascurata, in quanto sicura fonte di fecondi sviluppi anche per il futuro, la statuizione dell'uguaglianza morale, oltre che giuridica dei coniugi: essa, già trascurata dal dibattito svoltosi in seno alla Costituente che la considerava niente più che un complemento dell'uguaglianza formale, permette di pari passo con il secondo comma dell'articolo 3 di criticare la struttura di quelle condizioni patrimoniali che di fatto limitano la libertà e l'indipendenza del coniuge. Era questo, ad esempio, il profilo maggiormente critico dell'istituto della separazione dei beni dei coniugi adottato come regime legale (sia pur derogabile) non lesivo della parità dei giuridica, ma in grado di frenare il libero sviluppo del coniuge debole economicamente, previo il mancato riconoscimento del lavoro domestico. Entrambi gli aspetti sono stati opportunamente corretti dalla riforma ed è appena il caso di aggiungere che, come ha stabilito la Corte di Cassazione nella sent. 2470/78, anche ‘i comportamenti contrari al principio dell'uguaglianza morale dei coniugi’ sono da annoverare tra le giuste cause di separazione.
Risulta pertanto evidente che il dettato dell'articolo 29 secondo comma è condizione necessaria ed al contempo il logico sviluppo del primo comma dello stesso articolo, condizione della pensabilità di una società naturale a base diarchica e ‘storica vittoria della donna’ (Giacchi). L'art. 29 è ugualmente a base del riconoscimento dell'officium parentale del mantenimento, istruzione ed educazione sancito ex art. 30, inconcepibile in condizioni di disparità e dell'unità della famiglia, (da intendersi, ad onta delle accuse di scarsa giuridicità) in senso spirituale.
Dal canto suo, l'art. 30 contribuisce a tracciare ulteriormente il solco del differente ordine di valutazione instaurato dalla Costituzione. La disciplina del terzo comma, infatti, rifiuta decisamente i modelli codicistici di tradizione napoleonica: unico limite è la compatibilità dei diritti della famiglia legittima, limite inteso da certa dottrina come più che sufficiente per ragionare in termini di ‘conferma del regime previgente’ (Azzariti). Il nuovo disegno costituzionale, contemplando alla sua base un favor minoris che consuma i suoi effetti in tema di relazioni familiari nella designazione della famiglia-istituzione come luogo costituzionalmente privilegiato per lo sviluppo e l'educazione del cittadino, spiega ulteriormente la sua politica legislativa affermando senza incertezze un ‘principio di responsabilità dei genitori nei confronti della prole per il solo fatto del concepimento’ (Azzariti).
Sancita così l'esclusione di qualsiasi discriminazione all'interno della prole, a prescindere dallo status filiationis, e negata ogni eccezione al principio citato, queste norme si inseriscono in un più ampio favor minoris proprio del disegno costituzionale che comprende al suo interno il diritto allo studio, alla pari retribuzione lavorativa, alla formazione professionale, ecc.. La famiglia viene assumendo sempre di più l'aspetto del seminarium rei publicae, cioè del luogo degli affetti privilegiato in vista dell'educazione: è questo un passo irrinunciabile sulla via dell'‘umanizzazione del diritto di famiglia’ (Barbiera) (o meglio umanizzazione della funzione della famiglia), rammentata anche dall'articolo 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo.
 

Autore: Giuseppe Cassano
Leggi anche:
Introduzione al diritto di famiglia (II parte)


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