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Sei in: Approfondimenti Amministrativo
Dell’interesse legittimo (riesumazione di una “vecchia” tesi in controtendenza).

Ignoto agli ordinamenti degli altri Paesi, l’interesse legittimo – ossia la situazione soggettiva di vantaggio riconosciuta al cittadino che vede coinvolto un proprio interesse nell’azione autoritativa della pubblica amministrazione –  è una peculiarità tutta italiana.

La sua esistenza si deve esclusivamente alle contingenze storiche che hanno caratterizzato l’evoluzione del nostro sistema giuridico.

Il concetto di interesse legittimo, non avendo radicamento nella struttura del nostro diritto oggettivo (né in quello di alcun altro Paese al mondo), è una creazione puramente sovrastrutturale dei giuristi che, oltretutto, ha massimamente risentito delle ideologie dei tempi in cui hanno vissuto coloro che se ne sono occupati. Pertanto, il tentativo di comprendere cosa attualmente si ritiene essere la particolare figura in esame non può (purtroppo) prescindere da un sia pur sommario excursus storico-evolutivo della idea che i suoi principali studiosi se ne sono fatta ed hanno professato.

Prima di entrare nell’argomento, alcune precisazioni.

Questo scritto non contiene citazioni di persone e di opere che si sono occupati del problema e ciò per una meditata scelta del suo autore. Del resto, chi ha avuto modo di approfondire la materia è in grado di riconosce i riferimenti dottrinari delle teorie sull’interesse legittimo che vengono qui richiamate ed esaminate.

Mi sono, peraltro, limitato a prendere in considerazione le sole teorie portanti, tralasciando le loro infinite varianti e quelle più cervellotiche e bizzarre. Non ho neppure tenuto conto delle elaborazioni giurisprudenziali sull’istituto, ritenendo che la loro infinita varietà e la contraddittorietà delle posizioni cui i giudici sono giunti e giungono tuttora non diano alcun contributo alla comprensione del già per sé stesso complicato fenomeno da parte del lettore.

Le origini storiche della figura

Nella seconda metà del XIX^ secolo,  il neonato Stato nazionale unitario si trovò alle prese con il problema di unificare l’organizzazione amministrativa e, nello specifico,  con la necessità di provvedere al riassetto degli apparati preposti alla gestione del contenzioso amministrativo.

Il riordino fu compiuto con la (tuttora vigente) legge 24 marzo 1865 n.2248, Allegato E, che, nel sopprimere la gran parte degli organi cui era affidato il compito di dirimere il contenzioso amministrativo, affidò al giudice ordinario tutte le controversie in cui  “…si faccia questione d’un diritto civile o politico…” ed  “…ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa.” (art. 2) .

La riforma post-unitaria, guardando al sistema britannico, volle fare del giudice ordinario il garante “naturale” e tendenzialmente unico dei diritti soggettivi vantati da chiunque verso chicchessia.

A quel giudice, però, si negava il potere di revocare e modificare i provvedimenti amministrativi posti in violazione dei diritti soggettivi dei cittadini,  potendo egli solamente dichiararli illegittimi ai limitati fini della decisione della controversia e spettando poi alle stesse autorità amministrative conformarsi alla sentenza.

Era la versione italiana del principio della separazione dei poteri del Montesquieu. L’amministrazione, in quanto propaggine organizzativo-operativa del potere esecutivo, non può soggiacere al controllo ed ai condizionamenti del potere giudiziario, se non quando la sua azione sconfini nella sfera giuridicamente protetta dei terzi, vale a dire quando l’operato amministrativo leda un diritto “civile o politico” del privato. Al di fuori di questa ipotesi c’è la “riserva di amministrazione”, ossia il proprium della funzione istituzionale del potere esecutivo, impenetrabile al potere giudiziario e da questo intangibile.  In assenza di una lesione di diritti soggettivi ad opera del provvedimento, le eventuali illegittimità di questo potevano essere denunciate solo con ricorsi amministrativi, ossia avanti alla stessa pubblica amministrazione al fine di provocare un riesame dell’atto con possibili esiti di annullamento o di riforma.

Ma quando, secondo la concezione del Legislatore dell’epoca, il provvedimento doveva ritenersi lesivo o non lesivo di un diritto soggettivo del cittadino, con conseguente possibilità o impossibilità di una sua tutela giurisdizionale?

A dire il vero, non si aveva che un’idea approssimativa delle fattispecie in cui può accadere che il provvedimento violi un diritto soggettivo. Possiamo dire che, grosso modo, si riteneva che la lesione ad opera del provvedimento amministrativo di diritti soggettivi fosse possibile quando l’ordinamento riconosce al cittadino un diritto intangibile da parte del pubblico potere, ossia, quando nessuna legge contempla una potestà della P.A. di incidere su quel diritto precostituito.

All’infuori di questa fattispecie, nessuna violazione di diritti del cittadino e nessuna tutela giurisdizionale per lui, non traducendosi l’eventuale inosservanza delle leggi che regolano l’azione amministrativa nella lesione di interessi soggettivi giuridicamente tutelati.

Questa idea del potere amministrativo che, se c’è, non incontra ostacoli e limiti in situazioni giuridicamente protette dei terzi era costruita tenendo specificamente conto della situazione che si crea quando il privato è destinatario di un provvedimento ablatorio, ossia, di quel genere di provvedimenti amministrativi che operano una modifica in senso restrittivo della sfera giuridica soggettiva del loro destinatario (ad es. espropriazione per pubblica utilità di fondi privati). Il provvedimento amministrativo, essendo la manifestazione di un potere attribuito alla P.A. per la realizzazione di scopi di interesse generale, è dotato di “imperatività”, ossia della speciale attitudine ad incidere immediatamente nella sfera giuridica soggettiva dei terzi costituendone, modificandone o estinguendone le situazioni giuridiche soggettive in modo unilaterale, vale a dire prescindendo dalla ed anche contro la volontà dei destinatari. Grazie all’imperatività, le trasformazioni giuridiche avvengono nella sfera soggettiva altrui anche se il provvedimento non è adottato nel rispetto delle norme che disciplinano l’esercizio del potere di cui esso è manifestazione.  La decisione provvedimentale deve produrre subito i suoi effetti giuridici, giacché questo esige il superiore interesse generale nel cui nome è dato alla P.A. il potere di sacrificare i diritti dei singoli per il bene pubblico. Il provvedimento che estingue il diritto soggettivo del cittadino, dunque, produce senz’altro questa conseguenza e colui che la subisce non è più, ipso jure,  titolare di quel diritto. Il privato, pertanto, non dispone di alcuna legittimazione ad aggredire il provvedimento sotto il profilo giuridico, giacché non ha da lamentare illegittime lesioni del suo diritto, dato che questo, una volta adottato l’atto ablatorio, non gli appartiene più.

Ma, affinché il provvedimento sia imperativo, occorre che esso sia espressione di una potestà effettivamente attribuita dall’ordinamento alla P.A. di incidere su quel dato diritto soggettivo ed in quel dato modo.  Solo se quel potere c’è (nel senso che l’ordinamento lo attribuisce alla P.A.), il pregiudizio che ne deriva al titolare del diritto inciso può essere considerato secundum jus, dato che solo in questa evenienza l’immediata ed unilaterale trasformazione della sua sfera soggettiva si produce.

Quando, invece, il provvedimento mira ad incidere sul diritto del privato ma non trova la propria causa giustificativa in un corrispondente potere della P.A.,  esso è adottato in violazione di quel diritto. Difatti, mancando il potere, la trasformazione giuridica che il provvedimento vuole operare nella sfera altrui non si produce ed il diritto non viene compresso o estinto per effetto del provvedimento. Sicché l’eventuale esecuzione del provvedimento contro il suo destinatario integra violazione del diritto soggettivo di questi, fattispecie conoscibile dal giudice civile.

Fuori dalla sfera in cui la P.A. agisce in posizione autoritativa, si riteneva, invece, sempre possibile la lesione di diritti da parte della P.A., dato che questa non agisce con lo strumento provvedimentale ma, nell’esercizio della sua autonomia privata, mediante negozi giuridici di diritto comune, vale a dire in una posizione paritaria rispetto ai soggetti con cui entra in rapporto.

Oltre questi (limitati) casi, al soggetto pregiudicato dall’azione illegittima della P.A. non era  data tutela giudiziaria, ma solo amministrativa.

Ed è proprio fra gli interessi soggettivi non giustiziabili che si annidavano quelle peculiari posizioni giuridiche che, tempo dopo, avrebbero assunto la denominazione corrente di “interessi legittimi”.

A quel tempo, l’interesse legittimo, in quanto possibilità del privato di interferire nell’esplicazione del potere amministrativo, si presentava come un’entità giuridica allo stato  larvale, traducendosi nel limitato potere del suo titolare di denunciare l’illegittimità del provvedimento alla stessa struttura amministrativa che lo aveva emesso.

La posizione giuridica in questione, tuttavia, avrebbe assunto ben altra consistenza di lì a qualche decennio e, precisamente, nel 1889, quando, cioè, fu istituita la IV^ Sezione del Consiglio di Stato che – aggiungendosi alle preesistenti tre sezioni consultive –  era ordinata a conoscere dei ricorsi dei privati che, non potendo lamentare innanzi al giudice ordinario lesione di diritti soggettivi da parte della P.A., avessero ugualmente interesse a provocare l’annullamento di un provvedimento amministrativo viziato da incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge.

Nacque così l’attuale sistema bipartito della nostra Giustizia Amministrativa:  al giudice ordinario restava affidata la cognizione delle cause contro la P.A. in cui si faccia questione di diritti soggettivi, mentre al giudice amministrativo si demandava la cognizione delle controversie in cui l’interesse del privato danneggiato dall’atto amministrativo illegittimo non può configurarsi come  diritto soggettivo.

La primordiale nozione dell’interesse legittimo.

Benché da circa un ventennio la L.2248/1865 contenesse in grembo l’embrione dell’interesse legittimo come situazione atta a consentire una sia pur limitata ed aleatoria reazione del privato nei riguardi dell’azione autoritativa illegittima della P.A.,  fu solo dopo l’istituzione della quarta sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato che fra i giuristi cominciò a maturare la consapevolezza della sua esistenza.

Fu da allora che prese avvio il sistematico studio dottrinale e giurisprudenziale di quella situazione giuridica “minore” rispetto al diritto soggettivo e caratterizzata dal fatto che il privato, pur non avendo patito lesione di diritti dall’illegittimo agire della P.A., è ammesso a provocare il sindacato giurisdizionale su atti del pubblico potere.

L’approdo dogmatico cui i primi studiosi del fenomeno giunsero si concretò nell’idea che l’interesse legittimo consta della possibilità del privato di denunciare al giudice amministrativo l’atto (ipoteticamente) illegittimo, allo scopo di beneficiare del suo (eventuale) annullamento. Detta possibilità è data giacché, in questo modo, si realizza il fine ordinamentale di promuovere, nell’interesse generale, una verifica sulla corrispondenza dell’operato della P.A. ai criteri ed alle regole giuridiche che essa è tenuta ad osservare nell’esercizio dei suoi poteri.

Secondo questa primitiva concezione, l’interesse legittimo è, dunque,  la posizione di vantaggio con cui l’ordinamento protegge in modo diretto e speciale l’interesse pubblico alla legalità dell’azione amministrativa e solo indirettamente ed occasionalmente l’interesse del privato che, dallo scorretto agire della P.A., abbia tratto nocumento.

La possibilità che dall’annullamento del provvedimento contra jus derivi al privato un vantaggio  rappresenta la leva strategica attraverso cui l’ordinamento attua la verifica di corrispondenza dell’azione amministrativa all’interesse generale indifferenziato alla legalità amministrativa.

L’interesse legittimo, pertanto, sorge in capo al privato solo a seguito dell’emanazione di un provvedimento illegittimo a lui pregiudizievole e nessuna ulteriore utilità gli è consentito di conseguire oltre all’annullamento del provvedimento impugnato.

La concezione in chiave puramente processualistica.
 
Se l’interesse legittimo era inteso essenzialmente come il potere di chiedere al giudice amministrativo l’annullamento dell’atto amministrativo illegittimo, potere sotteso da un vantaggio materiale che il richiedente deve poter conseguire dal provvedimento giurisdizionale, era inevitabile che le successive evoluzioni del pensiero dottrinario sull’argomento conducessero a teorizzare che si tratta di un “diritto di pura azione”, vale a dire di una posizione di mera legittimazione ad agire sul piano processuale cui non corrisponde, sul piano sostanziale, alcuna situazione soggettiva. Il diritto sostanziale non si occupa dell’interesse materiale del privato coinvolto dall’esercizio della potestà amministrativa, poiché le norme che regolano l’esercizio della potestà si preoccupano solo del pubblico interesse.

La nozione contemporanea dell’interesse legittimo.

Alla concezione dell’interesse legittimo come mezzo che garantisce una protezione meramente occasionale ed indiretta dell’interesse materiale del privato, nonché allo sbocco in chiave esclusivamente processualistica di quel costrutto, la più moderna dottrina ha inteso reagire fermamente, gradatamente elaborando, soprattutto fra anni ’60 e ’70 dello scorso secolo, una nozione sostanziale dell’interesse legittimo.

Si tratta, cioè, di una posizione di vantaggio avente natura sostanziale prima ancora che processuale.

Al suo titolare non è data solo la possibilità di impugnare il provvedimento in sede giudiziaria per ottenerne la demolizione, ma una variegata gamma di potenzialità interlocutorie con la P.A. ordinate a consentire al privato di influire sulla decisione provvedimentale della P.A. in via anticipata rispetto alla sua programmata adozione (ossia nel procedimento amministrativo) e/o in via posticipata (in sede di contenzioso amministrativo o giurisdizionale). Questa azione d’influenza è sostanzialmente diretta ad orientare la decisione della P.A: nella direzione più vantaggiosa al privato, dando a costui la concreta possibilità di svolgere un’attività di prospettazione, alla stessa P.A. agente o al giudice amministrativo,  della soluzione provvedimentale più corretta ed adeguata sotto il profilo della corrispondenza dell’atto alle finalità di pubblico interesse che esso, secondo l’ordinamento, deve perseguire.

In secondo luogo, è inesatto ritenere che l’ordinamento, col riconoscere al privato i poteri di interlocuzione, azione e reazione di cui consta l’interesse legittimo, non intende accordare protezione  all’interesse particolare di costui, ma solo all’interesse pubblico.

Invero, nell’attuale Stato democratico non è più possibile riconoscere il ruolo di principio informatore dell’azione dei pubblici poteri al dogma ottocentesco della supremazia assoluta e generale dell’interesse pubblico su quello (particolare) dei consociati a conservare o ad acquisire utilitates rapportate a beni della vita oggetto di provvedimenti amministrativi.

Tale logora concezione del rapporto fra P.A. e cittadino è ormai inconciliabile con l’assetto socio-politico-istituzionale dello Stato, siccome delineato dalla Costituzione repubblicana del 1948, non essendo più sostenibile che l’interesse del singolo membro della collettività sia in posizione fisiologicamente subalterna all’interesse generale (art. 2 Cost.) ed emergendo, dalle norme costituzionali enunciative dei principi di azione e di organizzazione della P.A., che l’ordinamento fornisce protezione anche agli interessi privati coinvolti nello e dallo agire autoritativo della P.A. (art.97 Cost.: principio d’imparzialità dell’azione amministrativa).

L’interesse legittimo, dunque, non consiste in una modalità solo occasionale di protezione giuridica dell’interesse materiale del privato coinvolto dal potere amministrativo, né in una possibilità di pura azione sganciata dalla titolarità di un interesse giuridicamente tutelato dal diritto (oggettivo), non essendo (più) vero che il diritto (oggettivo) si preoccupa solo di garantire  tutela all’interesse pubblico pregiudicato dall’inosservanza delle regole dell’agire amministrativo. 

L’interesse legittimo, per contro,  assicura una tutela costante (e non occasionale) anche all’interesse individuale toccato dal provvedimento, giacché i comportamenti ed accorgimenti che le norme attributive delle potestà amministrative impongono alla P.A. di osservare mirano, contemporaneamente, alla cura del pubblico interesse ed alla salvaguardia degli interessi individuali coinvolti dall’esercizio delle potestà medesime.

L’interesse legittimo, dunque, attraverso il coacervo degli strumenti interlocutori e reattivi di cui consta, assicura, in modo imprescindibile ed inscindibile, una protezione diretta e specifica di due tipologie di interesse: quello che fa capo alla collettività indifferenziata e quello che fa capo a colui o a coloro nella cui sfera giuridica incide il potere amministrativo.

E’ questa strutturale ed inscindibile protezione congiunta dell’interesse individuale ed ultraindividuale la moderna funzione ordinamentale dell’interesse legittimo, inteso come  situazione soggettiva attiva riconosciuta al privato portatore di un interesse coinvolto dall’esercizio del potere della P.A.

Il recepimento nel diritto positivo della nozione dell’interesse legittimo come protezione diretta ed intenzionale dell’interesse individuale.

Il definitivo consolidamento della suesposta concezione biprotettiva perfetta dell’interesse legittimo si deve alla nota sentenza della Corte di Cassazione n.500/1999, seguita “a ruota” dalla legge n.205/2000: con l’una è stato abbattuto, sul piano dell’interpretazione giurisprudenziale dell’art.2043 c.c., l’ultrasecolare tabù della irrisarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi; con l’altra, la risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi è entrata nel patrimonio del nostro diritto positivo formale.

Se al titolare dell’interesse legittimo leso dall’azione amministrativa è riconosciuto il diritto di vedersi risarcire il danno conseguente,  ciò non significa che l’art.2043 c.c. è stato sinora male interpretato (come invece ha argomentato la Suprema Corte nella citata sentenza), ma che il vigente ordinamento offre pienezza di tutela all’interesse sostanziale facente capo al titolare dell’interesse legittimo, considerando quell’interesse sostanziale l’oggetto di una protezione diretta, specifica, intenzionale e costante e non certo involontaria, riflessa ed accidentale (non posso in questa sede dilungarmi ulteriormente su questo aspetto della faccenda, che richiederebbe un apposito trattatello).

Questo significa che il nostro ordinamento giuridico ha accolto una nozione dell’interesse legittimo come situazione giuridica soggettiva attiva attraverso cui sono protetti, in modo necessariamente congiunto ed identicamente intenzionale e diretto, l’interesse ultraindividuale della P.A: e l’interesse individuale del privato, in quanto entrambi presi in considerazione dalle norme che regolano l’azione amministrativa.

La fragilità della concezione dominante.

Delineata la fisionomia dell’interesse legittimo secondo la sua odierna concezione, tutto sembra a prima vista chiaro.

L’operatore del diritto avverte l’inebriante sensazione di avere in pugno la nozione di interesse legittimo, di avere compreso cosa esso sia e di potersi tranquillamente cimentare nel compito di stabilire quando si ha a che fare con un interesse legittimo e quando, invece, si ha a che fare con un diritto soggettivo.

Ma ben presto, quell’individuo dovrà ricredersi. Cercherà di analizzare più a fondo il fenomeno. E quanto più proverà a metterlo a fuoco, tanto più sperimenterà che si tratta di qualcosa di diverso da ciò che credeva essere e che le teorie dei giuristi gli hanno fatto credere che fosse.  Se, poi, il poveretto si volgerà fiducioso alla produzione giurisprudenziale per riceverne lumi chiarificatori,  ben presto dovrà definitivamente rinunciare a quelle poche certezze che riteneva di avere faticosamente conquistato. Egli finirà per convincersi che l’interesse legittimo è un’entità che forse esiste realmente, ma che, non essendo conoscibile dall’Uomo, ognuno immagina a suo modo e secondo la propria convenienza.

Il nostro rassegnato ricercatore (che ha molto di autobiografico) uscirà dal cul de sac solo se rinuncerà a dare per scontata la premessa di fondo da cui muovono le cc.dd. teorie più accreditate sull’interesse legittimo e, cioè, che fra la tipica protezione giuridica degli interessi individuali corrispondente al diritto soggettivo e la non protezione giuridica tuot court degli stessi interessi esista una sorta di terzo stato intermedio: quello della protezione degli interessi soggettivi coinvolti dall’esplicazione di un potere amministrativo.

La concezione odierna dell’interesse legittimo s’impernia sull’idea che il diritto oggettivo protegge in modo intenzionale e diretto l’interesse del privato, esattamente come accade al titolare di un diritto soggettivo. Ma, mentre il titolare del diritto soggettivo è tutelato nel suo esclusivo interesse, il titolare dell’interesse legittimo è tutelato se ed in quanto la sua tutela coincida con la tutela dell’interesse pubblico.

Cosa significa? Credo significhi che se la legge attribuisce alla P.A. il potere di modificare la sfera giudica soggettiva di un individuo perché ciò serve all’interesse pubblico e, se quell’individuo da quella modifica riceve contemporaneamente un’utilità, la realizzazione di questa utilità è protetta dal diritto in modo specifico e diretto assieme all’utilità pubblica.

Così, ad esempio, il partecipante ad un concorso pubblico che possiede i requisiti per vincerlo è tutelato dalle norme che impongono alla P.A. di selezionare, nel pubblico interesse, i soggetti più idonei a ricoprire il posto messo a bando. Quel soggetto, dunque, vanta un interesse legittimo ad essere proclamato vincitore del concorso perché la legge, imponendo alla P.A. di  presceglierlo fra gli altri concorrenti, realizza lo scopo di garantire alla collettività un certo livello di competenza dei pubblici dipendenti e, nel contempo, protegge l’interesse del concorrente più meritevole ad essere individuato come vincitore del concorso.

A questo punto, “la domanda sorge spontanea” (Antonio Lubrano, dall’ex trasmissione televisiva, in onda su Rai Tre,  “Mi manda Lubrano”; è questa l’unica citazione che mi concedo):  se interesse legittimo e diritto soggettivo forniscono la stessa protezione diretta e specifica all’interesse individuale,  a cosa serve ancora mantenere in vita la distinzione fra le due figure?

La risposta potrebbe essere che, essendo il nostro sistema bipartito di giustizia amministrativa espressamente voluto dalla Costituzione, l’interesse legittimo deve continuare ad esistere anche se come pura espressione nominale, poiché è sulla distinzione fra interessi legittimi e diritti soggettivi che si fonda la ripartizione fra giudice amministrativo ed ordinario della competenza a conoscere delle controversie che vedono la P.A. come parte in causa.

Ma la verità è che quella nozione di interesse legittimo non resiste ad un’analisi condotta al lume del buon senso e rispettosa del modo in cui il diritto (universalmente) appronta la sua tutela a favore dei consociati con riferimento ai beni della vita sui quali si concentrano i loro interessi.

Riprendendo l’esempio del concorso pubblico, non è vero che la legge impone alla P.A. di selezionare il concorrente che risulterà il migliore nello svolgimento delle prove selettive in quanto vuol proteggere anche il vantaggio egoistico di costui. La legge si occupa solo del vantaggio che la collettività potrà trarre dalla scelta degli elementi migliori da destinare allo svolgimento di mansioni e funzioni pubbliche.

A questo proposito, i sostenitori della teoria dell’interesse legittimo come protezione diretta dell’interesse del privato spiegano l’evidente forzatura rappresentata dalla duplice protezione degli interessi con la considerazione che la tutela dell’interesse individuale è intrinseca alle norme che organizzano e regolano l’agire amministrativo. Ciò perché è in questo modo che esse debbono interpretarsi alla luce dei principi costituzionali che presidiano i diritti e le istanze fondamentali dei cittadini all’interno delle organizzazioni in cui si svolge la loro esistenza (art.2 Cost.) e di quelli che riconoscono agli interessi leciti dei cittadini pari dignità rispetto agli interessi dello Stato e degli altri centri di potere pubblico (artt. 3 e 97 Cost.).

Però, a ben vedere, quei principi costituzionali non portano a giustificare una simile conclusione, poiché si limitano a postulare che i poteri pubblici trovino previsione e limite nella legge e ciò a specifica ed intenzionale salvaguardia delle libertà e degli altri diritti che la stessa legge riconosce anche agli altri soggetti della comunità statuale. Si tratta, in buona sostanza, di precetti fondamentali che ineriscono alle limitazioni legali del potere amministrativo e, dunque, alla tematica dei diritti soggettivi dei cittadini visti come prefigurati e predeterminati limiti al potere d’incidenza dei vari provvedimenti amministrativi nella sfera soggettiva dei terzi.

Sotto questo profilo, la tradizionale teoria dell’interesse legittimo come forma di protezione indiretta ed occasionale appare preferibile, in quanto coglie, se non altro, un innegabile dato di  fondo, ossia che la tutela dell’interesse individuale non è finalità ulteriore e concorrente delle norme che prescrivono comportamenti alla P.A. nel pubblico interesse.

Ma anche questa concezione lascia a desiderare nella misura in cui chiama contraddittoriamente “protezione giuridica indiretta” dell’interesse del privato una protezione che essa stessa considera il semplice riflesso di una tutela che è intenzionalmente accordata ad un differente interesse, l’interesse (generale) al rispetto della legalità dell’agire amministrativo. Se, infatti, la protezione giuridica dell’interesse di cui è portatore il miglior concorrente è solo un riflesso di quella assicurata (all’interesse generale) dalle norme che devono essere osservate perché sia scelto il miglior concorrente,  va da sé che la protezione dell’interesse particolare di quel soggetto è e resta un semplice precipitato causale della tutela fornita all’interesse pubblico e che si tratta di una protezione non “giuridica” ma di fatto.

Rivalutazione della teoria (riveduta e corretta) dell’interesse legittimo come diritto di pura azione.
 
Si è fatto in precedenza cenno alla teoria in chiave esclusivamente processualistica dell’interesse legittimo, inteso come “diritto di pura azione”.

Essa ha l’indubbio difetto di risolvere l’interesse legittimo in una situazione soggettiva collegata esclusivamente al processo amministrativo, laddove, invece, l’interesse legittimo assume rilievo anche sul terreno stragiudiziale, come possibilità di intervento nel procedimento amministrativo e di reazione contro l’atto illegittimo in sedi anche non giurisdizionali.

Ma, al di là di questo, il costrutto appare lucido e congruente quando concepisce l’interesse legittimo alla stregua di un quid privo di consistenza sostanziale.

In verità, la sostanzialità dell’interesse legittimo è il frutto di una inaccettabile forzatura ideologica, dal momento che non esistono norme di diritto sostanziale finalizzate a proteggere l’interesse generale e contemporaneamente quello individuale. Ciò perché, quando l’ordinamento impone alla P.A. di fare o di non fare qualcosa a vantaggio del privato,  eo ipso l’interesse del privato  ne risulta protetto come diritto soggettivo, laddove, per contro, le norme preordinate alla cura del pubblico interesse considerano l’interesse del privato come puro strumento di realizzazione dell’interesse generale e non come oggetto di una tutela concorrente con quella apprestata a quest’ultimo.

L’interesse legittimo, allora, non è ciò che lo fa essere un’ormai celebre sua definizione, oggi in gran voga, ossia la situazione giuridica soggettiva di vantaggio che fornisce protezione all’interesse di un individuo verso un bene della vita quando quest’ultimo è contemporaneamente oggetto delle statuizioni di un provvedimento della P.A. (ossia quando su quel bene si appuntino contemporaneamente interessi pubblici).

Si tratta, invece, di una figura giuridica la cui funzione storico-politica è stata quella di riempire uno spazio vuoto e, precisamente, lo spazio in cui all’azione amministrativa non si contrappongono diritti soggettivi del cittadino perché costui ha a che fare o con l’imperatività del provvedimento ablatorio oppure con le norme che si preoccupano solo di curare il pubblico interesse o, ancora, con la discrezionalità amministrativa (la quale, ad es.,  esclude la possibilità di configurare un diritto al provvedimento favorevole in capo al privato che aspiri ad un ampliamento della propria sfera giuridica ad opera della P.A.).  

Ma, a differenza di quel che comunemente si vuol credere, questo spazio vuoto non è stato riempito per assicurare un’insensata quanto contraddittoria protezione al singolo che si trovi nelle descritte situazioni di carenza di tutela giuridica, dato che, se l’ordinamento volesse proteggere quell’individuo, non creerebbe le suddette condizioni di vuoto protezionale.

L’ordinamento, invece, affida al soggetto alcuni strumenti utili ad attivare un controllo istituzionale sulla correttezza dell’azione amministrativa laddove questa, non incontrando diritti soggettivi dei privati stessi, sarebbe soggetta esclusivamente ad insufficienti forme di controllo interno alla stessa P.A.

L’interesse legittimo altro non è che un coacervo di poteri e di pretese aventi natura e contenuti puramente strumentali alla cura di un interesse ultraindividuale. Si tratta, in altri termini, di poteri e di pretese preordinati a rendere possibile, nel superiore interesse dell’ordinamento, la verifica della legalità dell’azione amministrativa e la conseguente attivazione dei rimedi previsti dalla legge di fronte all’acclarata illegalità in quell’ambito.

Attraverso la sperimentazione dei suddetti poteri e delle suddette pretese strumentali, il privato, se lo vuole,  ha la possibilità di orientare, svolgendo un’azione di persuasione in senso lato sulla P.A. e/o sul giudice amministrativo,  le decisioni dell’una e dell’altro in una direzione a lui vantaggiosa.

Questo imput psicologico del privato a conseguire un vantaggio egoistico dalla sperimentazione dei suddetti strumenti di persuasione assume anche un valore per l’ordinamento, ma non in quanto oggetto della protezione giuridica accordata al privato, bensì come pregiudiziale condizione di legittimazione di quel soggetto all’utilizzo di detti strumenti, nel senso che all’imput deve fare riscontro un oggettivo beneficio che l’individuo può trarre nella prefigurata ipotesi che la sua opera di persuasione abbia successo (e questo onde evitare le ovvie conseguenze devastanti di un potere d’interferenza nell’attività amministrativa riconosciuto al quivis de populo su basi indistinte ed indifferenziate).

L’interesse legittimo come insieme di diritti di partecipazione allo svolgimento dell’azione amministrativa.

Il complesso dei suddetti strumenti d’influenza altro non è che un fascio di diritti soggettivi che l’ordinamento riconosce al privato non per garantire e proteggere il suo interesse particolare al bene della vita oggetto del provvedimento amministrativo,  bensì per consentirgli di svolgere la predetta attività di interlocuzione e sollecitazione in se stessa considerata.

Che l’interesse legittimo sia questo lo si ricava anche dalla chiara strutturazione delle norme generali sul procedimento amministrativo (legge 7 agosto 1990 n.241) che attribuiscono a coloro  il cui interesse particolare è coinvolto dall’oggetto di un procedimento amministrativo poteri e pretese verso la P.A. procedente, posizioni con cui il diritto mira indiscutibilmente a tutelare in via diretta e specifica l’interesse di quei soggetti a partecipare attivamente ai procedimenti che li riguardino.

Sicché, l’interesse legittimo si delinea come un insieme di diritti riconosciuti ad un soggetto e preordinati a consentire allo stesso soggetto di svolgere un’azione di interferenza dialettica nell’attività autoritativa della pubblica amministrazione.

Lo scopo d’interesse generale per cui questi diritti sono riconosciuti (la repressione dell’illegalità dell’agire amministrativo) costituisce la ratio politica del loro riconoscimento e non l’oggetto della protezione giuridica che con essi s’intende garantire. Ciò che invece l’ordinamento protegge immediatamente e direttamente con l’attribuire i diritti in questione al privato è la possibilità in sé di consentire al privato stesso, nei modi e tempi stabiliti, l’azione d’interferenza nell’attività autoritativa della P.A., sul presupposto (necessario ad impedire l’indifferenziato ed indiscriminato utilizzo dello strumento legale) che il titolare di tali diritti possa ricevere una effettiva utilità nel caso di un buon esito di tale azione. 

Considerazioni finali.

Riepilogando e concludendo,  la teoria dell’interesse legittimo come diritto di pura azione aveva colto perfettamente nel segno, con la precisazione, però, che la “pura azione” non è da intendersi limitata al campo processuale, ma attiene anche al campo (extraprocessuale) del procedimento amministrativo.

L’interesse legittimo è un’espressione linguistica che non denota una situazione giuridica soggettiva attiva differente dal diritto soggettivo, bensì una peculiare tipologia di diritti soggettivi con cui si permette ad un individuo entrato in relazione col potere amministrativo la possibilità di svolgere alcune attività a contenuto relazionale.

Questi diritti sono riconosciuti a condizione che:
1) il privato non vanti un diritto soggettivo che protegge in modo specifico il suo interesse sostanziale nei confronti della P.A. (poiché, in tal caso, è competente il giudice ordinario e non quello amministrativo);
2) )il privato possa obiettivamente conseguire un’utilità personale, attuale e concreta dall’eventuale esito favorevole della sua azione dialettico-interlocutoria con la P.A. e/o col giudice amministrativo (condizione necessaria ad escludere le disastrose conseguenze di un sistema che rimetta l’attivazione dei meccanismi reattivi contro l’azione amministrativa nelle  mani del membro della collettività in quanto tale).

La finalità egoistica per cui il titolare di questi diritti se ne serve non costituisce lo scopo del riconoscimento dei diritti stessi, che va invece individuato nella finalità d’interesse generale rappresentata dal possibile esito ripristinatorio della legalità amministrativa eventualmente violata o che sarebbe stata violata in assenza dell’azione interlocutoria del privato.

Ed è opportuno anche evidenziare che, alla luce delle suesposte conclusioni,  perde ogni significato la nota distinzione fra interessi legittimi “oppositivi” e “pretesivi”, che presuppone la visione dell’interesse legittimo quale mezzo di tutela giuridica dell’interesse sostanziale del suo titolare, tutela che, come si è cercato di dimostrare, non c’è.   Del pari, non ha alcun senso continuare a parlare di interessi “procedimentali” o “formali” quale tipologia ulteriore e distinta rispetto a quella (priva di giustificazione) degli interessi oppositivi e pretesivi. Come abbiamo visto, la protezione offerta con l’interesse legittimo consta esclusivamente della possibilità del titolare di agire ed interagire nel procedimento amministrativo e/o giurisdizionale e non discende dall’esistenza di un (immaginario) obbligo della pubblica amministrazione di agire in un modo o nell’altro per la diretta (o indiretta) soddisfazione del privato. L’interesse legittimo è interesse “procedimentale” e nient’altro.

So perfettamente che la tesi sopra esposta farà parecchio arricciare il naso a molti, soprattutto adesso che sulla teoria sostanzialista dell’interesse legittimo sono stati eretti importanti edifici dogmatici e trapiantati istituti giuridici che, finalmente, consentono al cittadino di accedere a quella tutela (quasi) piena e (quasi) incondizionata verso lo Stato ed i pubblici poteri che per millenni gli è stata negata. 

Nondimeno, costruire castelli sulla sabbia ignorando deliberatamente l’universale ed invariante struttura deontica del diritto oggettivo  (non è un caso che gli altri ordinamenti non sappiano neppure cosa siano gli interessi legittimi) è un inaccettabile modo di voler risolvere i problemi senza affrontarli, atteggiamento tipico di chi intende cambiare le cose senza volerle veramente cambiare.

Se il diritto intende proteggere la posizione di un soggetto rispetto ad una utilità che esso trae o può trarre da un dato bene della vita,  non esistono altri modi per fornire quella protezione se non quello corrispondente al diritto soggettivo,  pur con le diverse fogge in cui la tutela può essere apprestata in relazione al diverso tipo di diritto del quale si tratta.

Ma se l’ordinamento contempla situazioni in cui una posizione subiettiva non è tutelata alla stregua del diritto soggettivo perché sull’interesse del soggetto interferisce un provvedimento dotato d’imperatività o perché la sua soddisfazione dipende da una scelta discrezionale della P.A. oppure perché il bene su cui esso si appunta assume rilevanza normativa in esclusiva funzione del soddisfacimento di un diverso interesse,  ciò significa che l’ordinamento reputa recessivo l’interesse del privato e che, nelle descritte situazioni, non intende proteggerlo.

Pertanto, dire che l’ordinamento protegge un’entità che vuole proteggere è affermare un colossale controsenso che neppure il miglior sofista riuscirebbe a giustificare sul piano logico-razionale.

Pertanto, delle due l’una: o si espungono dall’ordinamento le ricordate situazioni che escludono o fanno recedere la tutelabilità dell’interesse individuale nell’unica forma possibile del diritto soggettivo, oppure ci si rassegni a considerare l’interesse legittimo come un “diritto di pura azione” nell’accezione che è stata dianzi esposta.

Chi si prefigge di ricercare la verità non deve temere di approdare ovunque questo viaggio lo condurrà.

 


Autore: Claudio Silvis


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