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Il criterio di prevedibilità del danno ex art. 1225 c.c.

La sottoscrizione, che costituisce il momento finale della sequenza perfezionativa del contratto formale[1], è un atto di autonomia privata con cui, salve ipotesi di patologia del vincolo contrattuale, le parti assumano le reciproche obbligazioni con la coscienza e la volontà del contenuto e di ogni ulteriore conseguenza derivante dalla legge, dagli usi o dall’equità (art. 1374 c.c.) nonché l’obbligazione di risarcire il danno eventualmente cagionato all’altra parte nei casi di inadempimento.

Dalla precedente affermazione discendono alcune evidenti conclusioni: da un lato, ciascun contraente deve essere in grado, all’atto dell’assunzione dell’obbligazione, di percepire quali potranno essere le conseguenze legate all’accettazione del vincolo contrattuale; dall’altro lato, salvo il comportamento doloso, non sarebbe giuridicamente corretto addossare al contraente inadempiente quelle conseguenze che nel momento dell’assunzione dell’impegno non avrebbe potuto in alcun modo prevedere, né parrebbe legittimo accreditare a favore del contraente danneggiato un risarcimento, conseguenza dell’inadempimento non doloso, superiore a quello che egli avrebbe potuto ragionevolmente aspettarsi se, nel momento della conclusione dell’obbligo contrattuale, avesse ipotizzato che l’altro contraente sarebbe rimasto inadempiente.

L’art. 1225 c.c. che presuppone la responsabilità illimitata del contraente inadempiente per i danni cagionati al creditore qualora l’inadempimento dipenda da dolo, va limitato solamente al danno “che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione”. La Suprema Corte ha applicato tale norma in una recente pronuncia in tema di inadempimento del conduttore all’obbligazione di riconsegnare puntualmente il bene immobile locato integro e non deteriorato oltre l’usura ordinaria[2], suggerendo che il giudizio di prevedibilità debba avere ad oggetto il danno nel suo reale ammontare.

Dunque, dal principio secondo cui il contratto ha forza di legge vincolante fra le parti, a norma dell’art. 1372 c.c. discende che, una volta sottoscritto il contratto, qualora intenzionalmente il debitore non esegua la propria prestazione, egli debba rispondere di tutti i danni causati al creditore. I due diversi momenti e il diverso oggetto delle scelte tra loro collegate (quella di impegnarsi e quella successiva, di venire meno al proprio impegno), giustificano il diverso trattamento riservato al contraente inadempiente doloso da parte dell’art. 1225 c.c.

La norma non specifica, quale debba essere il contenuto del dolo, quantunque dall’esame della disposizione de qua, sembra desumersi che il legislatore non abbia voluto riferirsi al dolo contrattuale, né alla mera consapevolezza del debitore di non adempiere ad un’obbligazione (poiché qualsiasi inadempimento potrebbe presentarsi come doloso). L’interpretazione più coerente con il dato normativo è piuttosto quella, condivisa da dottrina e giurisprudenza maggioritaria, secondo cui il dolo ai sensi dell’art. 1225 c.c. consiste nella consapevolezza del contraente di non adempiere ad un’obbligazione contrattuale, unita alla volontà di restare inadempiente. Si potrà, quindi, affermare che il contraente il quale, consapevole del proprio inadempimento ingiustificato, decida di rimanere inadempiente, per gli effetti di cui all’art. 1225 c.c., si accolli con la propria condotta il rischio di cagionare al creditore anche i danni che, alla data di conclusione del contratto, non fossero prevedibili da un uomo di normale diligenza.

Dunque, qualora nell’ambito di un rapporto obbligatorio, la cui fonte non sia un fatto illecito, il creditore non sia in grado di provare che l’inadempimento sia derivato da dolo del debitore inadempiente (da intendersi nel duplice senso di consapevolezza di non adempiere ad un’obbligazione assunta e di volontà di restare inadempiente), la condanna al risarcimento a carico di quest’ultimo non potrà eccedere il quantum del danno prevedibile, secondo un criterio di normalità. Il principio della normalità si esprime mediante il criterio della diligenza del buon padre di famiglia, con riferimento alla medesima categoria di rapporti, alle ordinarie regole di comportamento dei soggetti economici e, secondo la più recente interpretazione della Suprema Corte, alle circostanze di fatto conosciute[3] al momento del sorgere dell’obbligazione.

In tema di risarcimento del danno per inadempimento contrattuale derivante da colpa del debitore, la prevedibilità del danno, intesa come giudizio di probabile accadimento, risponde all’esigenza di proporzionare la sanzione del risarcimento alla lesione di quei vantaggi che risultano connessi alla prestazione secondo un criterio di normalità, ponendosi come limite del danno risarcibile[4].

La prevedibilità, quale autonomo requisito di determinazione del danno risarcibile impone un onere probatorio a carico del creditore, integrando un elemento costitutivo della sua pretesa di risarcimento. Oggetto della prova è la conoscenza o concreta prevedibilità da parte del debitore di quei dati di fatto che incidono normalmente sulla produzione del danno e sui quali può fondarsi il giudizio di prevedibilità del danno stesso[5].

A riguardo, è sufficiente la sola consapevolezza di dovere adempiere una determinata prestazione ed omettere di darvi esecuzione, non già il requisito della consapevolezza del danno[6]. Nell’ipotesi di inadempimento doloso, l’obbligo del risarcimento non incontra il limite della prevedibilità del danno, poiché il dolo esclude l’esigenza di una proporzione tra la sanzione del risarcimento e la normale utilità della prestazione.

L’ambito del danno risarcibile nel caso di inadempimento e di ritardo non dolosi è limitato al danno che poteva prevedersi (secondo un criterio di normale diligenza) nel tempo in cui è sorta l’obbligazione mentre, in ordine all’entità del risarcimento dei danni derivanti da fatto illecito, il requisito della prevedibilità del danno, correlato all’elemento psicologico di esso (art. 1225 c.c.) è inapplicabile alla responsabilità extracontrattuale, in quanto non richiamato ad opera dell’art. 2056 c.c., norma che, per il resto, rinvia invece agli artt. 1223, 1226 e 1227, che costituiscono una sorta di normativa generale in materia di risarcibilità del danno da illecito.

Quindi, se il giudizio di previsione riguarda la produzione del danno come conseguenza probabile dell’inadempimento, avuto riguardo alla comune esperienza e in relazione alle concrete circostanze del rapporto, l’oggetto della prevedibilità è costituito da fatti che in concreto abbiano comportato un determinato sviluppo nella serie causale originata dall’inadempimento[7], mentre il momento genetico dell’obbligazione ai fini dell’individuazione del tempo della prevedibilità del danno si fa risalire alla data in cui sorgono come attuali gli obblighi delle singole prestazioni, coincidente solitamente con quello in cui al debitore si pone la scelta tra esatto adempimento ed inadempimento. La norma di cui all’art. 1225 c.c. si riferisce non tanto all’obbligazione risarcitoria nascente con l’inadempimento, allora il riferimento alla “prevedibilità” (di un danno potenziale e futuro) perderebbe di significato a fronte della già avvenuta “previsione” (del danno che si è realizzato a seguito dell’avvenuto inadempimento). Se, quindi, il tempo cui riferire la prevedibilità del danno è quello del sorgere dell’obbligazione poi rimasta inadempiuta, trovando la norma applicazione nell’ambito delle obbligazioni derivanti da contratto, può conseguentemente affermarsi che tale momento sia la conclusione del contratto.

Inoltre, il danno, in quanto perdita subita dall’avente diritto al risarcimento, comprende non solo la diminuzione patrimoniale consistente nel valore della prestazione non eseguita, ma anche il lucro cessante, ossia il mancato guadagno sulla base di un giudizio ipotetico imperniato sulla differenza tra situazione dannosa e situazione quale sarebbe stata se il fatto dannoso non si fosse verificato. Il lucro cessante deve essere risarcito quando sia provato che il danno si produrrà nel futuro secondo una fondata e ragionevole previsione, e non solo in caso di assoluta certezza[8]. Ciò al fine di ristabilire l’equilibrio economico turbato.

Ad esempio il risarcimento del danno dovuto al promissario acquirente, in caso di mancata stipula del contratto definitivo di vendita per fatto imputabile al venditore, deve comprendere la perdita subita e il mancato incremento dovuto al fatto che il bene non è entrato nel patrimonio del compratore. Il risarcimento del danno si concretizza nella differenza tra l’attuale valore del bene e il prezzo pattuito[9]. In sintesi, il danno è necessario che derivi da una causa lesiva, già verificatasi e la liquidazione dello stesso, qualora il danno non possa essere provato nel suo preciso ammontare, deve compiersi ad opera del giudice attraverso una valutazione discrezionale basata su presunzioni e su apprezzamenti di probabilità.

           

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[1] Gazzoni Francesco, Manuale di diritto privato, Napoli, 2007 Edizioni Scientifiche

[2] Cass. 15 maggio 2007, n. 11189, in C.E.D.; Cass., n. 595454. In questo secondo caso, il promittente venditore di un bene immobile, chiamato dal promissario acquirente a risarcire il danno derivante dal proprio inadempimento, chiamava in garanzia il precedente conduttore, il quale aveva impedito l’adempimento al contratto preliminare di compravendita per non aver rimosso dal terreno promesso in vendita i prefabbricati ivi installati in pendenza del rapporto locatizio. La Suprema Corte, ritenuta la responsabilità contrattuale nei confronti del locatore in capo al conduttore per aver riconsegnato l’immobile con ritardo o trasformato o deteriorato, statuiva l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 1225 c.c., da intendersi come limite legale al danno risarcibile da parte del conduttore, nella misura della prevedibilità astratta inerente ad una categoria di rapporti secondo un criterio di normalità in presenza delle circostanze di fatto conosciute.

[3] Questa è l’interpretazione data dalla giurisprudenza all’innovazione della norma nell’intenzione del legislatore del 1942 (cfr. Cass. 21 ottobre 1969, n. 3438, in Foro it., 1970, I, 498), con la precisazione, in linea generale, che la prevedibilità si concretizza in un giudizio probabilistico rapportato all’apprezzamento di una persona di normale diligenza, in relazione all’esistenza di fatti e circostanze normali: Cass. 26 giugno 2000, n. 8702, in Riv. it. dir. lav., 2001, II, 292; Cass. 17 marzo 2000, n. 3102, in Foro it., 2001, I, 259; Cass. 21 maggio 1993, n. 5778 cit.; Cass. 11 marzo 1992, n. 2910, in Giust. civ., 1992, I, 3972; Cass. Sez. lav., 11 ottobre 1983, n. 5896, in Foro it. Rep., 1983, voce Responsabilità civile, n. 84; Cass. 10 dicembre 1982, n. 6761, ivi, 1982, voce Danni civili, n. 25; Cass. 19 luglio 1982, n. 4236, in Giust. civ., 1983, I, 523;

[4] Cass. 19.04.97, n. 3395

[5] Basta leggere a riguardo Cass. dell’11.03.1992, n. 2910 che sottolinea come la prevedibilità non sia quella del singolo contraente ma quella astratta relativa ad una determinata categoria di rapporti, secondo le ordinarie regole di comportamento dei soggetti economici. Inoltre, l’inadempimento contrattuale, consapevole ed intenzionale, se provato, determina l’obbligo di risarcire anche i danni imprevedibili al momento in cui è sorta l’obbligazione.

[6] A riguardo Cass. 25.03.1987, n. 2899

[7] Cass. 17.3.2000, n. 3102

[8] Cass. 14.04.1983, n. 2602 e Cass. 24.01.1985, n. 318

[9] Cass. 17.07.97, n. 6586


 


Autore: Domenico Annunziato Modaffari


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