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Sei in: Approfondimenti La giurisprudenza
Commenti a recenti sentenze e possibili soluzioni interpretative in materia di abusi edilizi dei privati.

A causa dei recenti interventi legislativi che hanno inciso sull’articolato normativo del T.U. per l’edilizia, emerge l’apparente contrasto tra l’art. 36, secondo cui “sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro 60 giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”, e l’art. 20, modificato dal decreto legge 70/2011, dedicato al procedimento ordinario (non in sanatoria) del rilascio del permesso di costruire.  Nella nuova formulazione, al comma 8, si legge infatti che decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo, se il dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali.

Mentre nella prima norma, gli effetti del silenzio sono regolamentati direttamente dalla legge, poiché l'inerzia dell'amministrazione significa che l'istanza è respinta, tanto che l'interessato potrà impugnare l'atto di diniego implicito, nella seconda disposizione invece il silenzio ha valore di provvedimento implicito di accoglimento. Anche in questo caso chi ha interesse potrà impugnare il permesso di costruire silente con un ricorso al Tribunale amministrativo regionale.

Sul piano applicativo merita osservare che, la modifica dell'articolo 20 del Testo unico per l'edilizia non incide sul procedimento di permesso di costruire in sanatoria. Ciò è impedito dall'articolo 20 comma 4 della legge 241/1990, che disciplina in generale l'istituto del silenzio-assenso. Infatti, stando all'articolo 20 le disposizioni sul silenzio assenso non si applicano, tra le altre ipotesi, ai casi in cui la legge qualifica il silenzio dell'amministrazione come rigetto dell'istanza. Per arrivare al silenzio assenso sul permesso di costruire in sanatoria occorrerebbe, dunque, una modifica esplicita dell'articolo 36 del Testo unico per l'edilizia.
Va, comunque, ricordato che, per effetto dell'articolo 20 della legge 241/1990, anche nel caso di permesso di costruire tacito l'amministrazione competente può sempre assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies, sempre della legge 241/1990 e cioè revoca o annullamento d'ufficio, come può avvenire anche per
i provvedimenti espressi.

Tornando alla sanatoria, dal decreto sviluppo non sono stati toccati i presupposti sostanziali e, in particolare, la cosiddetta doppia conformità: il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda.

A tal proposito, emerge un evidente contrasto, in particolare, tra due indirizzi giurisprudenziali.

Da un lato, infatti, l'orientamento più rigoroso ritiene che sul principio di buon andamento, che fa ritenere illogico che si demolisca ciò che, al momento stesso, potrebbe essere autorizzato in base allo strumento vigente, debba prevalere quello di legalità: quindi non è possibile l'estensione del permesso di sanatoria al di fuori dei presupposti della cosiddetta «doppia conformità» e non può trovare applicazione l'istituto della cosiddetta sanatoria «giurisprudenziale» o «impropria», ammessa nell'ipotesi in cui le opere, inizialmente abusive, diventino successivamente conformi alle norme urbanistico-edilizie e alle previsioni degli strumenti di pianificazione per effetto di normative o disposizioni pianificatorie sopravvenute.

Dall’altro, invece, è stato affermato che l'articolo 36 del Testo unico per l'edilizia, nella parte in cui richiede che l'opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell'opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, è una disposizione contro l'inerzia dell'amministrazione: tale regola «non preclude il diritto a ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria» (Consiglio di stato, sezione sesta, n. 2835 del 07.05.2009).

2)  ARGOMENTO: L’ ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata: domanda di accertamento di conformità e notifica al proprietario del bene  (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 13.07.2011 n. 3775).

In sede di emanazione di ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata "dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia vigente (art. 27 t.u. edilizia) e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio" (Tar Campania, Napoli, sempre questa sezione sesta, sentenza 26.06.2009, n. 3530; 27.03.2007, n. 2885; 14.04.2010, n. 1975).
Peraltro, è stato ripetutamente chiarito che il predetto parere non occorre qualora il responsabile si limiti a operare delle valutazioni giuridiche e non tecniche, com’è nel caso di specie (TAR Campania Napoli, sez. VI, 14.01.2008, n. 195).

In particolare, l’art. 27 D.P.R. 380/2001 dispone che  “qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al regio decreto 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla legge 16.06.1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al decreto legislativo 29.10.1999, n. 490, il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa” . Da tale disposizione risulta, pertanto, che a seguito delle modifiche apportate con D.L. 269/2003, lo stesso art. 27 è applicabile tanto se venga accertato l’inizio quanto l’avvenuta esecuzione di opere abusive su area vincolata (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III, 11.03.2009, n. 1376), per cui non può trovare accoglimento la prospettazione del ricorrente nel senso dell’inapplicabilità della norma a causa dell’avvenuto completamento dei lavori (Sent. TAR Napoli sez. VI n. 8987/2009).

I giudici amministrativi sono da tempo orientati nel senso di ritenere che, la presentazione della domanda di accertamento  di conformità non incide sulla legittimità del provvedimento di demolizione.  Infatti, «l'efficacia dei provvedimenti di demolizione non è … suscettibile di essere paralizzata dalla successiva presentazione di una istanza di accertamento di conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia, né da un'istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica: esse non incidono sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio "ma unicamente sulla possibilità dell'amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione .... autonomamente valutando gli effetti" delle sopravvenute istanze a detti fini» (TAR Campania Napoli, sez. VI, 08.03.2011, n. 1345; cfr., poi, Cons. Stato sezione quarta, ord. n. 3055 del 12.06.2009 e n. 870 del 21.02.2008 richiamate in TAR Campania Napoli, sez. VI, 03.12.2010, n. 26787).
Qualora vi sia la concomitante insistenza sul territorio del vincolo paesistico ai sensi del D.Lgs. 29-10-1999 n. 490 e l’abusività delle opere realizzate, l’opzione prevalente è quella che impone la demolizione delle opere senza che residui alcun margine di discrezionalità in capo all’amministrazione, in applicazione dell’ art. 27, co. 2, D.P.R. 380/2001. Ebbene, la vincolatezza del provvedimento di demolizione rende superflua e non dovuta una puntuale motivazione sull’interesse pubblico alla demolizione, essendo sufficiente l’aver evidenziato la violazione del regime vincolistico (cfr., ex multis, TAR Campania Napoli, sez. VI, 04.08.2008, n. 9718); l'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è ‘in re ipsa’ poiché la straordinaria importanza della tutela reale dei beni paesaggistici ed ambientali elide, in radice, qualsivoglia doglianza circa la pretesa non proporzionalità della sanzione ablativa in rapporto all’interesse del privato che deve sempre esser considerato recessivo (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VI, 14.04.2010 , n. 1975, TAR Campania Napoli, sez. VII, 21.03.2008, n. 1474).

Per quanto attiene all’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 L. 241/1990, è necessario ricordare che esso non si applica ai provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, considerato il loro carattere doveroso (cfr., art. 21-octies L. 241/1990 e, in giurisprudenza, ex multis, Consiglio Stato sez. V, 19.09.2008, n. 4530; TAR Napoli Campania sez. IV, 02.12.2008, n. 20794 e Tar Campania, Napoli, sez. IV, 16.06.2000 n. 2147).

Tuttavia, il TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 13.07.2011 n. 3775 condivide l’assunto giurisprudenziale secondo cui l’Amministrazione, in sede di emanazione di un ordine di demolizione, deve notificare il provvedimento al proprietario del bene quale risultante dai registri catastali e ciò perché, da un lato, si suppone, sino a prova contraria, che il proprietario sia quanto meno corresponsabile dell’abuso e che, comunque, conservi con il bene una relazione tale da consentirgli di rimediare a eventuali abusi perpetrati sul proprio terreno e dall’altro, poiché, l’Amministrazione non ha l’onere di effettuare complessi accertamenti dei rapporti interprivati che abbiano eventualmente inciso sulla disponibilità del bene (cfr., ex multis, Consiglio Stato, sez. V, 31.03.2010, n. 1878; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 06.04.2011, n. 1945; TAR Sicilia-Palermo, sez. III, 21.02.2006, n. 426). Diversamente, la mancata notifica all’usufruttuario non incide sulla legittimità dell’ordine di demolizione, ferma rimanendo la possibilità per l’usufruttuario di impugnare autonomamente il provvedimento, di cui sia venuto a conoscenza, qualora ne ricorrano i presupposti.

3) ARGOMENTO: Riflessioni sulla natura giuridica delle valutazioni tecniche effettuate dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare (O.M.I.) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.06.2011 n. 1730).

Ai sensi dell’art. 52, comma 2, L.R. 12/2005 si applica la sanzione amministrativa pecuniaria pari all’aumento del valore venale dell’immobile o sua parte, oggetto di mutamento di destinazione d’uso, accertato in sede tecnica e comunque non inferiore a mille euro, nell’ipotesi in cui il mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie, ancorché comunicato ai sensi dell’articolo 52, comma 2, risulti in difformità dalle vigenti previsioni urbanistiche comunali.

Nello specifico, la determinazione dell’entità della sanzione pecuniaria avviene utilizzando le valutazioni tecniche effettuate dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare (O.M.I.) tenuto dall’Agenzia del Territorio. Tale determinazione è espressione della discrezionalità tecnica dell’amministrazione, sindacabile soltanto sotto l’aspetto dell’attendibilità delle operazioni tecniche, ed in particolare, sotto il duplice profilo della correttezza del criterio tecnico individuato e della correttezza del procedimento applicativo seguito dalla autorità per l’applicazione dello stesso (cfr. la nota decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, del 09.04.1999 n. 601 che, innovando l’orientamento preesistente, ha riconosciuto la possibilità di un sindacato “forte” sulla discrezionalità tecnica).

Alla luce di tali considerazioni, l’orientamento ad oggi senz’altro prevalente a proposito del sindacato giurisdizionale sulle valutazioni connotate da discrezionalità tecnica, ritiene che il giudice amministrativo possa censurare dette valutazioni solo laddove risultino tecnicamente inattendibili o affette da evidenti illogicità (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 21.03.2011, n. 1699).  Pertanto, l’organo giudicante nel caso de quo è chiamato ad accertare non se quella cui è giunta l'Amministrazione sia l'unica soluzione possibile (perché il carattere elastico ed opinabile dei parametri utilizzati implica che non esiste un unico risultato esatto), ma se quella soluzione sia, pur nella sua fisiologica opinabilità, tecnicamente attendibile (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 21.03.2011, n. 1712).

Il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.06.2011 n. 1730, applicando i suddetti principi di diritto, ha ritenuto che il giudizio espresso dall’Agenzia del Territorio non possa essere considerato inattendibile, atteso che:
- promana da un soggetto avente personalità giuridica di diritto pubblico a cui istituzionalmente compete la “gestione dell’osservatorio del mercato immobiliare e di servizi estimativi che può offrire sul mercato” (cfr. art. 4, lett. g, dello Statuto definitivo, di cui al “Testo deliberato nella riunione del Comitato Direttivo del 13.12.2000, coordinato con le modifiche ed integrazioni deliberate nella riunione del Comitato Direttivo del 19.01.2001”);
- la determinazione del “valore complementare”, ovvero dell’“aumento di valore venale dell’immobile” conseguente al cambio di destinazione d’uso, effettuata sulla base dei listini dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare, tenuto dalla stessa Agenzia, risulta esente da vizi sia con riguardo ai parametri utilizzati che alla loro concreta applicazione al caso che qui occupa.

Va rimarcato come, non solo il valore attribuito dall’Agenzia corrisponda a quello degli uffici in ottimo stato conservativo, sia pure individuato, nell’intervallo tra una soglia minima e massima, in prossimità della prima anziché della seconda, ma anche che il raffronto debba essere operato fra i valori assegnati agli immobili in relazione al medesimo stato di conservazione, così come correttamente operato da parte dell’amministrazione in causa.

In conclusione, l’attendibilità  della stima, che non viene contraddetta da elementi in grado di infirmarla (che nel caso di specie, non sono ricavabili dai contratti di compravendita prodotti dalla ricorrente, e che non risultano riferiti ad unità residenziali di “eguali caratteristiche … ubicazionali” a quelle di che trattasi) esclude la necessità di disporre, al riguardo, una C.T.U.

4)  ARGOMENTO: Sanzione amministrativa e non penale per l'assenza del Durc (Corte di Cassazione, III Sez. penale, con la sentenza 31.05.2011 n. 21780)

    1. Premessa: la fattispecie.

La Cassazione ha annullato la condanna che era stata inflitta dal giudice unico di Firenze a due rappresentanti legali di società cooperative che, titolari di permessi a costruire, avevano trascurato di presentare il documento di regolarità contributiva della srl cui erano stati subappaltati i lavori.
Il giudice fiorentino aveva ritenuto di dovere applicare la lettera a) dell'articolo 44 del Dpr 380/2001, una sorta di "norma penale in bianco" che colpisce le illecite condotte di trasformazione urbanistica o edilizia del territorio. Diversamente, gli ermellini fanno notare come la mancata presentazione del Durc «afferisce a un adempimento di carattere amministrativo che non riguarda la condotta di trasformazione del territorio».

    2. Le omissioni contributive legate al Durc non prevedono sanzioni penali ma esclusivamente amministrative.

Il Durc (documento unico di regolarità contributiva) è, infatti, un certificato che attesta la regolarità di un'impresa nei pagamenti e negli adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi previsti dalla disciplina in vigore a favore di Inps, Inail e casse edili. Deve essere trasmesso dal committente o dal responsabile dei lavori all'amministrazione concedente, prima dell'inizio dei lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività.
Il Durc costituisce così «un utile strumento per l'osservazione delle dinamiche del lavoro ed una forma di contrasto al lavoro sommerso e consente il monitoraggio dei dati e delle imprese affidatarie di appalti». Nulla però che abbia a che vedere con il governo del territorio, neppure in senso ampio. La sospensione del titolo abilitativo, come misura per l'omessa presentazione, ha natura di sanzione amministrativa che va a sommarsi all'altra sanzione amministrativa pecuniaria.

Attualmente, il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), sanziona "l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire".
Tale fattispecie penale trova i propri precedenti normativi nella L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. a), e nella L. n. 1150 del 1942, art. 41, lett. a), e le Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza 12.11.1993, Borgja, riferita alla previsione della L. n. 47 del 1985) hanno posto in rilievo che, nell'ambito dell'organico quadro della disciplina urbanistica posta dalla L. n. 1150 del 1942, "appariva evidente che l'oggetto della tutela penale s'identificasse nel bene strumentale del controllo della disciplina degli usi del territorio".

Dopo l'entrata in vigore della L. n. 765 del 1967 (introduttiva, tra l'altro, degli standard urbanistici e della salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio) e della legge di tutela paesaggistica n. 431/1985, però, "l'urbanistica non può farsi solo consistere nella disciplina dell'attività edilizia, dovendosi la relativa nozione estendere alla disciplina degli usi del territorio in senso sociale, economico e culturale, ivi compresa la valorizzazione delle risorse ambientali, nonché alle relazioni che devono instaurarsi tra gli elementi del territorio e non soltanto dell'abitato" (concetto riaffermato da Cass., sez. 3^, 10.06.1997, n. 5514).
Dall’articolato normativo della L. n. 47 del 1985, art. 20, le Sezioni Unite hanno ravvisato "una gradualità crescente delle pene edittali in rapporto al grado di lesione dell'interesse tutelato", rilevando in particolare che "la previsione della lettera a) comprende le trasgressioni residuali, sempreché apprezzabili penalmente, cioè non depenalizzate".

Trattasi di considerazioni sicuramente pertinenti anche rispetto alla nuova formulazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), con la necessaria precisazione che il concetto di "residualità" deve essere interpretato alla stregua del principio di tassatività delle fattispecie penali incriminataci, che porta comunque ad escludere dall'ambito di operatività della contravvenzione in oggetto inosservanze diverse da quelle individuabili secondo il tenore letterale della norma.

Nella ricostruzione delle singole ipotesi di inosservanza che integrano il precetto della disposizione sanzionatoria in esame  (comunemente e pacificamente considerata quale "norma penale in bianco", vedi Cass., Sez. Unite: 29.05.1992, Aramini e 12.11.1993, Borgja) e con precipuo riferimento alla "inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive", ritiene il Collegio che inosservanze siffatte devono pur sempre riguardare la condotta di trasformazione urbanistica o edilizia del territorio.
Il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), si riferisce testualmente alle disposizioni di legge "previste nel presente titolo", vale a dire il titolo 4^ della prima parte del testo unico in materia edilizia, comprendente gli artt. da 27 a 51, e ciò si palesa come una formulazione riduttiva rispetto alla corrispondente fattispecie incriminatrice previgente (la L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. a), che, punendo "l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dalle presente legge, dalla L. 17 agosto 1942, n. 1150 e successive modificazioni e integrazioni", veniva interpretata, secondo parte della giurisprudenza (vedi Cass., sez. 3^: 07.03.1993, Gorraz e 07.03.1995, Garofalo),  come un rinvio aperto a tutta la legislazione urbanistico-edilizia, comprensiva anche delle leggi regionali che costituiscano integrazione dette norme per il controllo dell'attività urbanistica ed edilizia.

Nel precetto attualmente vigente (più aderente al principio di tassatività della fattispecie penale) manca qualsiasi riferimento espresso alla possibilità di integrazione del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. da 27 a 51 da parte della legislazione regionale (tenendo sempre conto, comunque, della preclusione posta dall'art. 10, u.c. nei casi in cui sia la legge regionale ad individuare ulteriori interventi sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire).
Nel caso in esame, la violazione contestata afferisce ad un adempimento di carattere amministrativo che non riguarda la condotta di trasformazione del territorio.
Infatti, il DURC disciplinato attualmente, per le opere edilizie, dal D.Lgs. 09.04.2008, n. 81, art. 90 (in materia di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro) come modificato dal D.Lgs. n. 106 del 2009 è un certificato che attesta la regolarità di un'impresa nei pagamenti e negli adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi nonché in tutti gli altri obblighi previsti dalla normativa vigente nei confronti di INPS, INAIL e Casse Edili, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento.
Esso, ai sensi del D.Lgs. n. 81 del 2008, stesso art. 90, comma 9, lett. c), deve essere trasmesso dal committente o dal responsabile dei lavori "all'amministrazione concedente, prima dell'inizio dei lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività".

 La normativa nazionale in materia di regolarità contributiva è spesso integrata da leggi regionali che individuano ulteriori fasi o particolari motivazioni che  rendano necessario acquisire il DURC (ad es.: richiesta del certificato, nei casi di lavori privati in edilizia, anche alla fine dei lavori). 
Alla luce di tali considerazione emerge chiaramente la diversa natura e funzione del documento unico di regolarità contributiva rispetto al governo del territorio e la previsione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 90, comma 10, secondo la quale "in assenza del documento unico di regolarità contributiva delle imprese o dei lavoratori autonomi, è sospesa l'efficacia del titolo abilitativo"  ha carattere di sanzione amministrativa ulteriore rispetto alla sanzione amministrativa pecuniaria comminata, per la violazione dell'art. 90, comma 9, lett. c), dall'art. 157, lett. c), medesimo D.Lgs. in esame.
Il legislatore, dunque, non ha inteso prevedere sanzioni penali per le omissioni riferite alla trasmissione del DURC e sanzioni siffatte non possono essere surrettiziamente introdotte facendo ricorso alla previsione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a).

Una norma residuale in materia di reati edilizi ed urbanistici, quale è pacificamente considerata quella di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a),  risponde, infatti, all'esigenza di evitare che vadano esenti da pena condotte di aggressione al territorio che si traducono nella violazione sostanziale delle norme che prescrivono le modalità con cui possono concretamente essere effettuate le trasformazioni del suolo.
Nella specie, in conclusione, il Tribunale ha correlato la sanzione penale alla inosservanza di una normativa prevista dalla legislazione statale e da quella regionale non a fini urbanistici ed in relazione ad un comportamento omissivo per il quale, in sede propria, il legislatore statale ha inteso comminare soltanto sanzioni amministrative.

La conclusione cui giunge la Suprema Corte è così per l'esclusione assoluta di qualsiasi rilevanza penale per la condotta di mancata presentazione del documento. La norma che è stata utilizzata dal giudice unico di Firenze è invece una disposizione residuale contro i reati edilizi e urbanistici e risponde all'esigenza di colpire comportamenti di aggressione al territorio in violazione delle norme che disciplinano le trasformazioni del suolo.

 

 


Autore: Ramona Cavalli


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