La giurisprudenza comunitaria ha più volte affermato che qualora una intesa non soddisfi tutte le condizioni prescritte da un regolamento di esenzione, ovvero nel caso in cui non sia stata concessa (o chiesta) l’esenzione individuale, le parti della stessa possono comunque dimostrare che l’accordo di cui trattasi non è per altri motivi incompatibile col divieto di cui all’art. 85 par. 1[1][1].
In effetti, per verificare la sussistenza di una infrazione antitrust è necessario accertare che le intese abbiano per oggetto o per effetto l’impedimento, la restrizione o il falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato rilevante. L’inapplicabilità di un regolamento di esenzione costituisce certamente un indice rilevante a tal fine, ma deve comunque essere verificata in concreto la violazione del divieto previsto dalle disposizioni sulle intese restrittive della libertà di concorrenza.
Come ha ribadito in più di un’occasione la Corte di giustizia, nell’ipotesi abbastanza frequente di scambio di informazioni sensibili tra imprese, la relazione tra inapplicabilità del regolamento e illiceità della condotta non è sempre automatica, pertanto, anche ritenendo che dall’inapplicabilità del regolamento di esenzione non derivi automaticamente l’illiceità della condotta contestata, la verifica della legittimità dell’impugnato provvedimento deve essere svolta in concreto con l’esame dei motivi con cui le appellanti contestano la natura sensibile dei dati scambiati e sostengono comunque la liceità dello scambio.
Al paragrafo 3 dell’art. 85 esiste un’altra eccezione che rende esenti dal divieto gli accordi che, sebbene contrari al par. 1 della citata norma, creano dei vantaggi per il mercato, quali miglioramenti nella produzione o distribuzione dei prodotti o promozione del progresso tecnico o economico, sempre che non venga eliminata la concorrenza per quei medesimi prodotti.
E’ necessaria comunque la sussistenza di un nesso che renda indispensabile l’infrazione del paragrafo 1 per raggiungere i risultati utili al mercato e che l’infrazione stessa non travalichi tale valore di indispensabilità. Naturalmente, ogni intesa presa in disaccordo con l’art. 85 par. 1 che non ricade nella scriminante ex par. 3 o in quella dell’“importanza minore” sarà punita con la nullità, così come avviene, in ogni caso, laddove sia verificata una pratica concordata.
Gli accordi in violazione dell’art.85 Trattato CE possono essere distinti in verticali ed orizzontali, a seconda che vengano posti in essere da imprese operanti in fasi diverse del processo produttivo e distributivo, oppure al medesimo livello dello stesso. Esempi del primo tipo sono gli accordi di distribuzione esclusiva di un prodotto in una determinata area geografica e gli speculari accordi di acquisto esclusivo, che impegnano un contraente ad approvvigionarsi da un unico produttore[2][2]. Sono, inoltre, accordi verticali quelli di distribuzione selettiva, che danno la possibilità al fabbricante di vendere solo tramite determinati canali distributivi, sempre che la selezione non si basi su criteri qualitativi obiettivi, nel qual caso sono ammessi[3][3].
Un modello assimilabile alla distribuzione selettiva, ma lecito, è il contratto di franchising di servizi, mentre l’opposto vale per il franchising industriale (vi sono, comunque, dei correttivi volti a limitare la soggezione esclusiva dell’affiliato all’affiliante). Fanno parte, invece, degli accordi orizzontali quelli volti a praticare dei prezzi predeterminati sul mercato (c.d. “price fixing”), sempre illegittimi[4][4] o quelli relativi alle condizioni d’acquisto e di vendita. Inoltre, gli accordi che impongono determinati quantitativi di produzione o di investimenti aziendali[5][5], nonché quelli sulla ripartizione dei mercati[6][6], oppure gli accordi di specializzazione che impegnano a produrre solo particolari beni o servizi appartenenti ad un preciso settore, lasciando alle controparti la produzione esclusiva di altri beni o servizi specifici, così da settorializzarsi ed eliminare vicendevolmente la concorrenza nei singoli campi delimitati.
Altro esempio tipico di accordo orizzontale è quello che impone a chi voglia usufruire di una determinata prestazione, di richiederne anche altre come condizione per ottenere quella desiderata. Le intese tra imprese, quindi, sono restrittive della concorrenza quando sono volte a consentire agli operatori di fissare di concerto le decisioni in merito a variabili strategiche quali il prezzo, le quantità prodotte o le caratteristiche qualitative dei beni e servizi offerti. Quando l’accordo è così ampio da predefinire con esattezza i livelli di prezzo o le quantità di prodotto assegnate a ciascun operatore, si realizza nel mercato un ambiente fortemente collusivo nel quale è praticamente eliminata ogni possibile forma di concorrenza.
Analoghi effetti possono derivare da accordi di spartizione dei mercati o della clientela, più facilmente realizzabili dalle imprese in quanto richiedono, all’interno del cartello, un più semplice monitoraggio dei comportamenti delle stesse imprese, ma ugualmente difficili da scoprire da parte di un’autorità antitrust. Tali accordi sono vietati nel Mercato comune perché falsano la concorrenza e danneggiano chi opera a vario titolo sul mercato. Resta il fatto che gli accordi tra imprese volti alla fissazione dei prezzi di vendita o alla ripartizione dei mercati rappresentano le violazioni più gravi della normativa antitrust. Questi accordi non hanno alcuna giustificazione di efficienza: si tratta, infatti, di accordi che danno luogo ad aumenti dei prezzi di mercato, cosicché gli acquirenti non possono più avvantaggiarsi della concorrenza tra fornitori diversi e beneficiare di prezzi competitivi e che determinano, pertanto, una diminuzione complessiva del benessere sociale.
Altri tipi di accordi hanno per oggetto od effetto la fissazione di altre condizioni inerenti al funzionamento dei mercati, quali ad esempio: la fissazione di contingenti di produzione o la ripartizione del mercato tra imprese. Le difficoltà connesse all’individuazione di siffatte intese discendono soprattutto dalla circostanza che a esse spesso partecipano tutti, o quasi tutti, i possibili concorrenti. I clienti delle imprese e, più in generale, i consumatori non sempre sono in grado di avvertire che le condizioni di offerta delle imprese partecipanti sono l’effetto di una concertazione, soprattutto se la relazione economica è occasionale. Il risultato è che queste violazioni gravi della normativa antitrust solo raramente sono oggetto di denuncia alle autorità di concorrenza. Di qui la difficoltà dell'acquisizione di sufficienti elementi probatori, soprattutto quelli di natura documentale, generalmente decisivi nell'ambito di un procedimento istruttorio.
Al fine di facilitare l’individuazione degli accordi di cartello, la Commissione Europea e alcuni paesi della CEE, come la Francia, la Germania, il Regno Unito e l’Olanda, hanno introdotto programmi di clemenza per quelle imprese che cooperano con le autorità di concorrenza per fornire le prove dell’esistenza di un cartello, in cambio dell’immunità, totale o parziale, dalle sanzioni che, altrimenti, sarebbero state irrogate in ragione dell’illecito commesso. I programmi di clemenza riducono così la stabilità di un accordo collusivo, incentivando i partecipanti al cartello a deviare dagli impegni reciprocamente presi e a cooperare con l’autorità antitrust nazionale. Là dove sono stati introdotti, i programmi di clemenza stanno dando risultati assai promettenti.
La normativa italiana ancora non consente pienamente l’utilizzo di questi strumenti, con la conseguenza che i procedimenti nei confronti degli accordi e delle pratiche di cartello si basano prevalentemente su evidenze spesso difficili da ottenere. L’Autorità italiana guarda con interesse all'applicazione di programmi di clemenza e, nel corso degli ultimi anni ha contribuito attivamente all’elaborazione di linee guida per la loro applicazione, frutto di una iniziativa congiunta delle autorità antitrust degli Stati membri dell’Unione e della Commissione Europea.
Il panorama delle intese restrittive della concorrenza è molto ampio e si è peraltro arricchito nel corso del tempo di nuove e più sofisticate forme di collusione. Oltre a fissare congiuntamente i prezzi o a ripartirsi i mercati, infatti, le imprese talvolta concertano condotte che facilitano il mantenimento o il raggiungimento di equilibri collusivi. Tali pratiche facilitanti coinvolgono anch’esse la maggioranza degli operatori in un mercato e sono funzionali alla collusione, in quanto consentono di eliminare o, comunque, di ridurre significativamente le difficoltà associate al coordinamento tra concorrenti.
Sia ha violazione della normativa della concorrenza anche attraverso intese che hanno come contenuto pratiche facilitanti. Si tratta, in particolare, di un intenso scambio di informazioni sensibili che avviene soprattutto nell’ambito dei servizi assicurativi concorrenti. La Corte di giustizia si è più volte pronunciata con riguardo al caso delle assicurazioni RC auto. Si tratta di una decisione importante soprattutto perché conferma l’idoneità restrittiva di intese orizzontali concretatesi non tanto in espressi accordi tra imprese concorrenti, né in chiari e inequivocabili allineamenti dei prezzi finali, bensì in pratiche che facilitano la collusione tra le imprese.
Nel caso di specie, uno scambio di informazioni su variabili strategiche di natura altamente disaggregata e continuativa è stato ritenuto idoneo a consentire alle imprese di coordinarsi rapidamente, con costi informativi condivisi e, pertanto, notevolmente ridotti. Si tratta di uno scambio di informazioni strategiche talmente sensibili che le stesse imprese hanno adottato una sofisticata tecnica di criptaggio, di cui ovviamente conoscevano il sistema di decodifica, al solo fine, dunque, di non incorrere in censure antitrust. La decisione sulle assicurazioni, in ciò pienamente confermata dalla Corte di giustizia, ha peraltro il merito di aver evidenziato che lo scambio di informazioni strategiche non è censurabile soltanto nei mercati oligopolistici ma anche nei mercati con molti operatori, ove, anzi, lo scambio d’informazioni può assumere una portata anticompetitiva ancor più rilevante in quanto diretto a vanificare un equilibrio concorrenziale molto consistente, che è tipico dei mercati più aperti e con la presenza capillare di imprese operanti nel medesimo settore che hanno dato vita sempre più a nuove e più sofisticate forme di collusione.
Ma occorre verificare in concreto la portata collusiva di tali forme di intese, in quanto non sempre vietate, sia pure intercorrente tra operatori attivi in un mercato altamente concentrato, merita dunque radicale censura. Anche in mercati caratterizzati da tecnologia innovativa in rapida evoluzione, la cooperazione è suscettibile di contribuire allo sviluppo, conferendo innovazione ed efficienza.
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[1][1] Sentenza VAG France SA/Établissements Magne SA del 18 dicembre 1986
[2][2] Come esempio del primo tipo si veda la sentenza Tipp-Ex del 8 febbraio 1990. Per il secondo tipo si vedano le sentenze Brasserie de Haecht del 12 dicembre 1967 e DE Norre/Concordia del 1 febbraio 1977
[3][3] A tal riguardo basta leggere le decisioni Omega del 28 ottobre 1970 e Villaroy e Boch del 16 dicembre 1985 nonché la sentenza Vichy del 17 febbraio 1992
[4][4] In tal senso paradigmatiche sono le decisioni Materie Coloranti del 24 luglio 1969 e Polipropilene del 23 aprile 1986; nonché le sentenze Industria europea dello zucchero del 16 dicembre 1975
[5][5] Decisione Rivestimenti Bituminosi del 10 luglio 1986
[6][6] Decisioni Cartello del chinino del 16 luglio 1969, Cartello del cemento del 30 novembre 19