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Nota a C.A. Genova 21 maggio 1999 n. 397
Ditta Grasso (Avv. G. Ceino) / Fall.to Campodoni (Avv. C. Morellini). La supposta “terzietà” del G.D. nel procedimento di opposizione all’insinuazione allo stato passivo ed il mito della verginità del giudice di merito.

Il presente lavoro nasce dall’esame di una sentenza recentemente emessa dalla Corte di Appello di Genova che affronta ed offre lo spunto per rimeditare alcune questioni sulle quali dottrina e giurisprudenza sembrano essersi attestate su posizioni ermeneutiche antitetiche.
In breve il fatto: l’impresa artigiana Grasso (difesa dall’Avv. Ceino del Foro di Genova), dopo aver esperito inutilmente una procedura esecutiva nei confronti della Ditta Campodoni (avente ad oggetto un credito maturato a fronte di prestazioni professionali eseguite a favore di quest’ultima), depositava istanza di fallimento della Ditta Campodoni stessa presso la sezione fallimentare del Tribunale di Genova.
Intervenuta la declaratoria di fallimento, la Ditta Grasso proponeva rituale istanza di ammissione al passivo del Fallimento Campodoni invocando per l’intera somma dovutale il privilegio di cui all’art. 2751 bis cod. civ. essendo essa regolarmente iscritta all’albo delle imprese artigiane (come risultava dalla visura allegata agli atti).
All’udienza di verifica il G.D. riconosceva l’intero credito così come protestato, ma escludeva il privilegio «perché l’investimento di capitale appare prevalente sul fattore lavoro».
Avverso tale provvedimento la ditta Grasso ricorreva ex art. 98 L. Fall. deducendo l’erronea valutazione meramente quantitativa del rapporto lavoro / capitale effettuata dal G.D. e, con successiva memoria, eccepiva la sospetta illegittimità costituzionale dell’art. 98 L. Fall. nella parte in cui prevede che l’opposizione allo stato passivo sia decisa con ricorso presentato nanti lo stesso G.D. dell’opposizione.
Il Tribunale di Genova, al quale il G.D. aveva rimesso la causa per la decisione, respingeva la questione di legittimità costituzionale, ritenendola manifestamente infondata, e rigettava la opposizione della ditta Grasso riconoscendo – tra l’altro – alla iscrizione nell’albo delle imprese artigiane una natura meramente indiziaria della qualità di “artigiano”.
La Ditta Grasso impugnava tale decisione deducendo, tra i motivi di gravame, l’erronea valutazione dei criteri normativi per individuare l’impresa artigiana, la natura costitutiva e non meramente indiziaria dell’iscrizione nell’albo delle imprese artigiane e ribadendo la sospetta illegittimità costituzionale dell’art. 98 L. Fall. rispetto agli artt.li 3, 24 co. 3°, 101, 102 e 108 Cost. atteso che il G.D. che aveva emesso il provvedimento impugnato era la stessa persona fisica che aveva partecipato al collegio chiamato a decidere sul ricorso.
La Corte di Appello di Genova, con l’articolata decisione oggetto del presente lavoro, respingeva i motivi di appello proposti dalla ditta Grasso e confermava la sentenza resa dai giudici di prime cure.
Pur essendo evidente, come anticipato, che la sentenza sopra indicata affronta nel contempo numerose questioni giuridiche di notevole interesse, per ovvii motivi di brevità – non volendo abusare oltre il lecito della pazienza dei lettori – focalizzo l’attenzione sulla sospetta illegittimità della procedura fallimentare di opposizione alla istanza di insinuazione allo stato passivo in relazione alla necessità di garantire la “terzietà” del Giudice Delegato.
Com’è noto si tratta di un tema che si ripropone ciclicamente all’attenzione degli studiosi del diritto (fallimentare e non), non solo perché prevale (in giurisprudenza) la tesi che attribuisce al giudizio di cui all’art. 98 L. Fall. la natura di impugnazione (limitandolo al riesame dei provvedimenti resi dal G.D.: vedi Trib. Torino 14.06.88 e Trib. Milano 30.08.90) ma, soprattutto, alla luce delle numerose sentenze dei Giudici delle Leggi ( ) aventi ad oggetto l’art. 34 cod. proc. pen. – riguardante i casi di incompatibilità del giudice penale – che obbligano l’interprete, come pure il giurista, ad interrogarsi sulla possibilità di estendere analogicamente anche al rito civile i principi dettati in relazione al procedimento penale.
Proprio questa è la linea difensiva – impervia ed irta di ostacoli – che la difesa della ditta Grasso ha coraggiosamente seguito sia nel giudizio nanti il Tribunale che nel successivo grado di appello sfociato nella decisione in esame.
Se si conviene con il prevalente orientamento giurisprudenziale che qualifica l’opposizione come una “contestazione” del decreto emesso dal G.D. ( ) è indubbio che un approccio acritico consenta di dubitare della legittimità costituzionale di una procedura in cui è previsto che del collegio chiamato a giudicare il ricorso faccia parte – nella veste di relatore – anche il G.D. che ha emesso il provvedimento impugnato, tanto più che un’analoga situazione in seno al rito civile comporterebbe l’obbligo di astensione (in virtù di quanto disposto dall’art. 51 n. 4 cod. proc. civ.) del giudice stesso.
Riprendendo le linee difensive espresse dall’Avv. Ceino, legale della ditta Grasso, si può affermare che l’estensibilità per analogia anche ai riti civili delle recenti sentenze rese dai Giudici delle Leggi in materia di incompatibilità del giudice penale si può dedurre da alcune circostanze.
In primis è evidente che l’asserito parallelismo tra il ruolo del G.I. nel rito civile ed il G.D. nella procedura fallimentare (richiamato anche nella sentenza del Tribunale di Genova avverso la quale è stato proposto l’appello oggetto del presente lavoro) è illusorio e nasconde una situazione che la dottrina non ha esitato a definire “angosciosa” atteso che «si assiste ad un’incresciosa esasperazione del concetto pubblicistico che, invocando la dignità dell’uomo magistrato, lo pone nella condizione di sdoppiare la propria personalità, dimenticando che non entra in gioco la semplice opinione del giurista ma è tutto il compito che il G.D. svolge nella procedura di formazione dello stato passivo che gli preclude una serenità di giudizio in sede collegiale» ( ).
In secundis un’attenta lettura delle sentenze rese in tema di art. 34 cod. proc. pen. consente di affermare che «dev’essere assegnato un ruolo particolare ed assolutamente prioritario al principio di imparzialità del giudice, che altro non è che un aspetto di quel carattere di terzietà che connota la funzione giurisdizionale» ( ) e, conseguentemente, appare ictu oculi la lacunosità di quelle norme processuali – come l’art. 51 cod. proc. civ. – che prestano il fianco ad un’interpretazione restrittiva a discapito della possibilità di instaurare un due process.
Peraltro l’applicabilità in via analogica anche al rito civile dei principi dettati in tema di incompatibilità del giudice penale non trova ostacolo nel (supposto) carattere tassativo dell’elencazione contenuta nell’art. 51 cod. proc. civ. atteso che, già prima delle decisioni dei Giudici delle Leggi sopra indicate, la miglior dottrina processual-civilistica aveva superato il principio di tassatività delle ipotesi di astensione del giudice ( ).
Infine la difesa della ditta Grasso lamentava la lesione anche del diritto alla difesa poiché – nonostante i giudici di prime cure avessero ritenuto che «anche in sede di giudizio di opposizione le parti si trovano in posizione di assoluta parità nell’espletamento delle attività processuali» - è evidente che la pregressa cognizione della causa in un precedente grado di giudizio rischia di incidere sulla imparzialità del G.D. in conseguenza della c.d. forza di prevenzione ( ) consistente nella «naturale tendenza a mantenere un giudizio già espresso o un atteggiamento già assunto in altri momenti decisionali dello stesso procedimento, in conseguenza del quale sarebbero ininfluenti nuovi argomenti difensivi e nuovi mezzi di prova a fronte di un orientamento decisionale del giudice ormai già determinato».
Nonostante quanto sopra esposto i giudici di appello genovesi hanno ritenuto la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale posta dalla ditta Grasso ricordando come «sia pienamente condivisibile l’orientamento recentemente espresso dalla Suprema Corte nell’escludere che nel processo civile possano essere direttamente trasferite le tematiche largamente approfondite dalla giurisprudenza costituzionale con riguardo alla incompatibilità del giudice nel quadro dell’art. 34 c.p.p., sulla base del rilievo che le profonde differenze tra i due modelli di processo dal punto di vista strutturale e funzionale non consentono all’interprete una simile operazione ermeneutica, anche prescindendo dalla mancanza nel processo civile di una norma analoga all’art. 34 c.p.p.» e richiamando la sentenza con cui i Giudici delle Leggi hanno respinto la declaratoria di illegittimità dell’art. 34 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede la incompatibilità del magistrato, che come giudice delegato del fallimento abbia autorizzato il curatore a costituirsi parte civile, a svolgere le funzioni di giudice nel procedimento penale in cui debba effettuarsi la costituzione stessa ( ).
In relazione al primo punto emergente dai motivi della decisione di appello, si osserva che molti Autori hanno – amaramente – concluso che «il settore più deficitario appare essere quello delle procedure concorsuali, che nonostante gli sforzi fatti dalla Corte Costituzionale in quasi quaranta anni, resta ancora un procedimento in contrasto sotto più profili con la nostra Carta costituzionale» ( ).
Considerando i molteplici compiti e poteri che sono attribuiti dalla legge al G.D., non è difficile accorgersi che il processo fallimentare si pone in stridente contrasto con i princìpi costituzionali di terzietà del giudice in diverse occasioni ( ), essendo ad esempio evidente l’impossibilità che il giudice delegato istruisca o decida – anche solo quale componente del collegio – controversie da questo autorizzate ai sensi dell’art. 25 n. 6 L. Fall. ( ).
Secondo l’orientamento della dottrina maggioritaria, al quale aderisce lo scrivente, non sussistono ragioni sufficienti per escludere dal processo fallimentare le tecniche poste a salvaguardia del già citato principio della forza di prevenzione anche se nel contempo si è consci che l’accoglimento di tale principio provocherebbe una vera rivoluzione copernicana nella legge fallimentare ( ).
La Corte di Appello genovese ha inoltre ritenuto che la concentrazione in capo alla figura del G.D. delle funzioni di istruttore e di relatore soddisfi esigenze di snellezza e speditezza già emerse nei recenti interventi di ortopedia normativa ai quali è stata sottoposta la novella del 1990.
Anche questa argomentazione, ad avviso di chi scrive, non può essere condivisa essendo evidente che esigenze di concentrazione e speditezza della procedura possono acconsentire che il giudice delegato assommi funzioni sia di tipo amministrativo che di carattere più nettamente giurisdizionale, ma è parimenti indubbio che sarebbe in contrasto con ogni regola procedurale e costituzionale attribuire al G.D. – come accade nell’attuale sistema – anche funzioni giurisdizionali in senso pieno, che si pongono in contrasto con i poteri che egli ha nelle fase anteriori all’esercizio di tale giurisdizione.
Da ultimo, volendo mantenere la promessa di non dilungarmi eccessivamente sull’argomento, si osserva come anche il riferimento – contenuto nei motivi della decisione della sentenza in rassegna – all’ordinanza n. 351 della Corte Costituzionale (del 21 novembre 1997) non muti, ad avviso di chi scrive, i termini della questione.
Con tale ordinanza i Giudici delle Leggi avevano dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità dell’art. 34 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del magistrato che, come G.D. del fallimento abbia autorizzato il curatore a costituirsi parte civile, a svolgere le funzioni di giudice del procedimento penale in cui debba effettuarsi la costituzione stessa ( ), fondando la decisione sul rilievo secondo il quale «l’autorizzazione non è un provvedimento giurisdizionale di carattere decisorio, ma è espressione delle generali funzioni di controllo esercitate dal giudice delegato nel corso della procedura fallimentare (…) tanto è vero che normalmente l’autorizzazione viene concessa, o negata, sulla base degli elementi prospettati dal curatore o, comunque, risultanti dalla procedura fallimentare».
In realtà il punctum dolens che la Corte Costituzionale non sembra aver voluto affrontare – forse per arginare quanto dalla stessa precedentemente affermato, alla luce del vivace dibattito avutosi sulla incompatibilità del giudice () – riguardava la considerazione del ruolo e della figura del giudice delegato all’interno della procedura fallimentare, valutando se tale ruolo si possa considerare compatibile con le funzioni giurisdizionali di altri procedimenti pur tuttavia connessi con quello fallimentare.
Tralasciando l’esame di questioni che, evidentemente, non hanno nulla da spartire con il decisum dei giudici di appello genovesi, appare condivisibile l’affermazione ( ) secondo cui «dalla lettura di questa sentenza emerge in modo piuttosto netto come la Corte Costituzionale si sia posta il problema della c.d. forza di prevenzione nel processo civile con una certa chiusura preconcetta, ovvero con la volontà a priori non solo di non estendere anche al processo civile i principi già affermati per il processo penale ma anche (probabilmente) di tornare un po’ indietro rispetto alla posizione che aveva assunto con le prime, rivoluzionarie, decisioni».
Si evidenzia tuttavia che parte della dottrina non concorda con tale impostazione ( ), considerando “eversiva” la applicazione della forza della prevenzione al processo civile perché in grado di porre l’incompatibilità dei magistrati tra fasi processuali che non hanno la caratteristica di “gradi”, ponendosi in contrasto con l’orientamento del codice di rito che pone gli istituti della astensione e della ricusazione solo fra “gradi di giudizio”.
È ovvio che l’applicazione del principio della forza di prevenzione al processo civile scardina il limite del “grado di giudizio” e tende ad estenderlo anche alla diversa fase del giudizio ancorché del medesimo grado, ma è parimenti vero che questa divisione sembra essere destinata ad attenuarsi progressivamente, come testimonia anche la recente L. 16 luglio 1997 n. 254 istitutiva del giudice unico di primo grado che, concentrando ed aumentando numericamente i magistrati di uno stesso ufficio giudiziario, cancella i problemi pratici di un’applicazione conforme del principio della terzietà del giudice e favorisce pertanto l’estensione della forza della prevenzione anche nel processo civile.

Autore: Avv. Giampaolo Naronte


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