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Sistemi di common, civil ed islamic law a confronto

Com’è noto, i sistemi giuridici mondiali vengono generalmente classificati in due famiglie principali: la civil law e la common law, ma in realtà esiste ancora un altro sistema giuridico, che potrebbe essere definito di “islamic law”, che va preso in considerazione, non solo perché si tratta del terzo grande sistema giuridico mondiale (esso si applica infatti a più del 20% della popolazione mondiale), ma anche perché sta divenendo argomento di un rinnovato interesse sia a seguito dei recenti avvenimenti terroristici, che hanno risvegliato interesse e curiosità per un mondo che a lungo tempo è rimasto sconosciuto, che per i fenomeni di “reislamizzazione” che stanno caratterizzando alcuni Paesi di cultura islamica, come il Pakistan, lo Yemen, la Malesia, ed in ultimo la Nigeria, i quali dopo aver adottato delle codificazioni di tipo occidentale, evidentemente ad un certo punto non le hanno più sentite come a loro congeniali, e sono ritornate al diritto islamico, reintroducendolo nei rispettivi ordinamenti. Ciò ha riguardato in particolar modo il diritto penale.

La caratteristica fondamentale dei Paesi di Civil law, può essere individuata nel fatto che il giudice trae la propria decisione da un’interpretazione sistematica delle norme di legge ed utilizzando, nel caso in cui la questione non sia regolata espressamente dal diritto, criteri interpretativi integrativi quali l’analogia od il ricorso ai principi generali di diritto. Di conseguenza, mediante il ricorso all’analogia od ai principi generali di diritto, qualunque caso si presenti deve trovare la sua soluzione (cd. principio di completezza dell’ordinamento giuridico), per cui non esistono lacune nel nostro ordinamento. Il giudice di civil law infatti non può (come faceva il giudice romano) pronunciarsi con un “non liquet”, ossia (la norma) “non è chiara”, lamentando un’oscurità o contraddittorietà della legge che gli impedisce di pronunciarsi. Un tale astenersi dal giudizio anzi, integra gli estremi del reato di omissione di atti d’ufficio, espressamente previsto dal nostro codice penale.

Nei sistemi di civil law il giudice fonda quindi la sua decisione esclusivamente sulle norme del diritto. Nell’interpretazione della norma da applicare alla fattispecie concreta cioè, egli è libero di non adeguarsi all’opinione espressa da altri giudici, potendo discostarsi dalla loro interpretazione.

In realtà, è noto che anche negli ordinamenti di Civil law i precedenti giudiziari, e soprattutto le pronunce delle giurisdizioni superiori, hanno un certo grado di vincolatività. Ciò vale anche nel nostro ordinamento, dove viene ammessa la possibilità, per il giudice di merito, di adempiere all’obbligo di motivazione della propria sentenza, attraverso il mero richiamo della giurisprudenza della Corte di Cassazione, in relazione alla soluzione di una questione sulla quale quest’ultima si è pronunciata in maniera univoca (Cass., sent. n. 3275/1983). Viceversa, il giudice di merito che intenda discostarsi dai precedenti della Cassazione, ha l’obbligo di motivare accuratamente tale scelta e di addurre ragioni complete, congrue e convincenti per contestare l’interpretazione disattesa (Cass., sent. n. 7248/1983).

Gli ordinamenti di common law invece (es. quello inglese, statunitense ed in genere quelli di tutti i Paesi facenti parte del Commonwealth), non sono basati, a differenza di quelli di civil law, su un sistema di norme raccolte in codici, bensì sul principio giurisprudenziale dello “stare decisis”, vale a dire sulla vincolatività del precedente giudiziario.

Ciò non significa che in tali sistemi manchino delle leggi scritte: queste leggi esistono e sono conosciute come “Acts of Parliaments” o “Statutes”, ma hanno carattere di specialità rispetto al diritto di origine giurisprudenziale (“case law”) e soprattutto, il loro numero è inferiore rispetto ai Paesi di civil law.

Inoltre, gli statutes sono soggetti a criteri interpretativi differenti da quelli utilizzati nei paesi di civil law. Innanzitutto, la loro interpretazione è consentita nel rispetto di criteri di rigida oggettività, per cui i giudici di common law possono ricercare e ricostruire il significato delle norme (scritte) esclusivamente sulla base del dato letterale, escludendo qualsiasi riferimento a criteri extratestuali.

Ad esempio, il ricorso ai cd. “lavori preparatori della legge”, che nei nostri ordinamenti di civil law viene così frequentemente utilizzato dai giudici per risalire alla volontà del legislatore, non è utilizzabile negli ordinamenti di common law. In questi ultimi anzi, vige un principio esattamente opposto, secondo cui le Corti non devono andare alla ricerca di ciò che il legislatore intendeva dire, quanto piuttosto devono ricercare il “vero significato” di ciò che il legislatore ha detto. Di conseguenza, se una legge non regola espressamente un caso, tale lacuna non dovrà essere colmata da altri criteri interpretativi quali l’analogia legis od i principi generali di diritto, per cui la lacuna persisterà nel sistema. Non vige dunque in questi sistemi quel principio di completezza dell’ordinamento giuridico che è caratteristica dei sistemi di civil law. Ciò tuttavia non significa che tali ordinamenti rinunzino alla certezza del diritto, perché come si vedrà, quella lacuna verrà colmata dai precedenti giurisprudenziali, che nel sistema anglosassone sono fonte del diritto.

Le disposizioni contenute negli Statutes sono dunque riferibili esclusivamente ai casi in essi espressamente indicati (regola del “casus omissis”), con impossibilità di estenderle, salvo rare eccezioni, a casi simili.

Il principio della letteralità dell’interpretazione della legge, che con così tanto rigore viene applicato negli ordinamenti di common law, trova però un temperamento in un altro principio tipico della tradizione anglosassone, che è quello della cd. “golden rule”. In base a tale principio, il giudice non può dare alla legge un senso contrario alla ragionevolezza, il che significa che qualora il senso di una legge risulti irragionevole e divergente rispetto alla  lettura d’insieme del diritto vivente, il giudice potrà forzare l’interpretazione del dato testuale, armonizzandola con il complesso delle altre disposizioni vigenti.

Da ciò si ricava che anche negli ordinamenti di common law le leggi non vengono interpretate in maniera isolata, ma secondo un criterio di sistematicità, che si basa su una visione del diritto come “insieme armonico” di disposizioni, la cui “armonia” viene assicurata proprio dal giudice.
Nella tradizione della common law, il giudice dispone dunque di un potere di iniziativa molto più ampio rispetto ai giudici dei Paesi di civil law, in quanto il diritto si forma principalmente per effetto di una sorta di processo di accumulazione di pronunce giudiziali che divengono giurisprudenza. Un’altra caratteristica dei sistemi di common law, ed in particolare quello inglese, che è il più antico, trapiantato in buona parte del mondo (Stati Uniti compresi) a seguito delle colonizzazioni, è la sua continuità, nel senso che dalla sua nascita ad oggi non ha mai subito interruzioni, come è avvenuto con le codificazioni moderne del continente: tale diritto cioè non è mai stato immobilizzato in un codice, per cui quello antico non è stato mai abrogato e sostituito da un sistema giuridico moderno.

Il diritto attuale si configura pertanto come corpus di leggi e pronunce giurisprudenziali che per effetto di un lungo processo di sedimentazione sono giunte a noi nella forma in cui le conosciamo. Accade così oggi che, negli ordinamenti di common law, antiche leggi e sentenze convivano con leggi e sentenze più recenti.

Il giudice di common law cercherà dunque di risolvere la controversia sottoposta al suo vaglio, rifacendosi ad una decisione anteriore regolante un caso simile, nella quale ricercherà la soluzione per il caso sottoposto al suo esame.

Ad egli solo spetterà dunque di decidere se attribuire a tale decisione il valore di precedente vincolante nei confronti del caso successivo, cosa che di fatto avviene quando i «fatti essenziali» (material facts) delle due controversie sono praticamente gli stessi. Questo modus operandi evidenzia il modo di procedere, di tipo induttivo, del giudice di common law, poichè la sua attività consiste proprio in un’operazione di confronto della questione giuridica sulla quale viene chiamato a pronunciarsi con casi precedentemente decisi da altri giudici, allo scopo di individuare punti comuni ed estendere, attraverso l’uso dell’analogia, la ratio decidendi della decisione anteriore al caso successivo. In questo senso si dice che nei sistemi di common law  il giudice non crea, ma “scopre” il diritto, un diritto frammentato che viene riportato alla luce progressivamente, in funzione delle esigenze del caso concreto.

Questo modo di procedere è dunque esattamente l’opposto dei sistemi di civil law, caratterizzati al contrario da un ragionamento di tipo deduttivo, dove i giudici, piuttosto che scoprire la ratio decidendi di un determinato fatto, ne ricercano la soluzione all’interno di leggi scritte, potendo pur tuttavia contare su strumenti interpretativi integrativi (analogia legis e principi generali dell’ordinamento) che gli consentono di colmare eventuali vuoti normativi.

Questa caratteristica della tradizione di civil law si ricollega ad un’altra, non meno importante, caratteristica di tali sistemi, costituita dal loro concettualismo: è nota infatti l’importanza che la nostra tradizione assegna a concetti astratti quali ad esempio quelli di negozio giuridico o di autonomia privata, costruzioni che sono conseguenza proprio di un metodo di ragionare di tipo deduttivo che caratterizza il giurista di common law (1).

Nella common law inoltre, la vincolatività di un precedente è strettamente collegata all’autorità dell’organo giudicante che lo emette, ossia alla posizione occupata da tale organo nella rigida gerarchia in cui è organizzata la magistratura dei Paesi anglosassoni, con una vincolatività dei precedenti che cresce man mano che dalle Inferior Courts ci si avvicina alle Superior Courts. Va comunque ribadito, tuttavia, che anche in questi sistemi, il giudice è fondamentalmente libero di seguire l’orientamento giurisprudenziale che preferisce, per cui può accadere che in uno Stato ad ordinamento federale (è il caso degli Stati Uniti), la decisione finale muti considerevolmente a seconda dello Stato e della Corte presso cui si svolge il processo, dando luogo a fenomeni di “forum shopping”, in cui ciascuna parte litigante cerca di indirizzare la controversia al giudice dello Stato la cui legislazione risulti maggiormente favorevole a sè.

Veniamo dunque al terzo sistema giuridico preso in esame: quello della Islamic law. Prima di analizzarlo è necessario fare una premessa: nella nostra cultura siamo abituati a considerare che le scelte di uno Stato siano indipendenti dalle scelte degli ordinamenti confessionali. La separazione esistente nel mondo occidentale tra la sfera politica e quella religiosa invece non esiste, almeno così nettamente come da noi, nelle società islamiche.

Per certi versi possiamo trovare un’analogia tra tale tradizione con quella orientale, dove la scissione tra la sfera giuridica e quella etico-morale non si è mai verificata, per cui i due aspetti storicamente sono sempre stati strettamente connessi. In Oriente infatti, accanto alle norme scritte e formalizzate, opera un insieme di norme non formalizzate di carattere etico e consuetudinario, che per motivi storici e culturali ha sempre avuto un ruolo assai rilevante in tali società, talvolta superiore a quello delle norme di carattere giuridico, al punto che spesso queste ultime rivestivano un ruolo di complemento delle prime.

In Cina ad esempio, dove a partire dalla fine degli anni ’70, è in atto un processo di “occidentalizzazione” del diritto concretizzatosi nell’adozione di modelli codicistici europei come quello tedesco, francese, svizzero o italiano (si pensi ad esempio, che il modello del codice civile italiano ha giocato un ruolo fondamentale nella redazione della nuova legge cinese sui contratti, entrata in vigore dal 1 ottobre 2000), è stata per lungo tempo prevalente l’ottica confuciana, che si proclamava avversa alle leggi ed ai tribunali (ritenuti incapaci di regolare in maniera armoniosa i rapporti sociali), arrivandosi addirittura, durante il periodo maoista, a disprezzare e perseguitare coloro che pretendevano di regolare la loro condotta secondo il diritto o che si occupavano del suo studio, proclamando che “il diritto è buono per i barbari”. Lo stesso concetto di diritto è sconosciuto anche all’antica civiltà cinese, sostituito dalla disciplina, l’educazione, il rito, strumenti principali attraverso i quali veniva garantito l’ordine nella società. Anche questo aspetto, sotto certi versi, presenta molti punti di contatto con i Paesi islamici ed in particolare con l’importanza data da questi ultimi all' "Aqida" (il Credo) ed all'educazione, quali principali mezzi per il miglioramento ed il progresso della società.

In questi sistemi infatti è proprio l’educazione, basata su un saldo credo religioso (e quindi l’educazione religiosa), ad offrire garanzia di ordine e stabilità nella società. Nei sistemi di islamic law è infatti ampiamente diffusa la convinzione che una sana società possa essere costruita solo su un ideologia e su valori forti e condivisi, fattori che prima ancora del diritto assicurano la sua coesione. Una corretta educazione degli individui, da effettuare tramite il  concorso delle famiglie, delle moschee, delle scuole e delle università, consente a questi di interiorizzare questi valori e di comprendere a cosa devono essere orientate le loro azioni. Ciò consente loro di ottenere un miglioramento personale, oltre che sociale (2).

Tutto ciò evidenzia quanto siano rilevanti, negli ordinamenti dei paesi musulmani ed in quelli asiatici, il sistema di consuetudini e di relazioni che si instaurano tra i soggetti, ad esempio in occasione di una contrattazione. Per cui in tali ordinamenti acquistano un ruolo fondamentale la stabilità e la fiducia reciproca (al punto che ad esempio, tutto il sistema giapponese di contrattazione viene definito di tipo "relazionale", proprio perchè i rapporti di scambio economico a carattere duraturo sono retti principalmente da elementi di fiducia reciproca e da obblighi di tipo morale che si instaurano fra le parti). Ancora, la prima manifestazione scritta del diritto in Giappone, costituita dal Codice del Principe Shotoku (604), si apre con  l’enunciazione "Bisogna onorare l’armonia", frase che ben evidenzia quella che è una costante del diritto giapponese, e cioè che oltre allo Stato giocano un ruolo fondamentale nella regolamentazione della società anche altre regole non propriamente giuridiche, come i codici di condotta e gli usi ancestrali.

In occidente invece, la norma giuridica, intesa come prodotto della ragione ed in quanto tale dotata di forza vincolante, ha il primato rispetto altri tipi di regole che pure vigono nella società (quali quelle a carattere etico, morale, religioso). Nel mondo musulmano, dove invece la fonte del diritto è Dio, legislatore per eccellenza, la norma religiosa ha anche contenuto giuridico e soprattutto riceve la propria legittimazione dal fatto di essere emanazione diretta di Allah. Di conseguenza essa è ben più di un semplice precetto religioso, così come l’intero diritto musulmano è molto più di un semplice sistema di norme regolanti le condotte dell’individuo, essendo un sistema totalizzante che regola ogni aspetto della sua vita. Inoltre i precetti coranici, fonte primaria del diritto islamico, essendo vero e proprio testo rivelato da Dio, non possono essere messi in discussione da un musulmano, perché ciò significherebbe mettere in discussione la parola di Dio.

Pur presentando sorprendenti analogie con il diritto romano, il diritto musulmano non è strutturato intorno ad un corpo di leggi: sotto questo aspetto si avvicina dunque ai sistemi di common law, con la fondamentale differenza che anziché essere diritto di produzione giurisprudenziale, esso è diritto di produzione dottrinale, in quanto le fonti scritte del diritto islamico (Corano e Sunna), obiettivamente contenenti un numero assai limitato di prescrizioni giuridiche, sono integrate dalle opinioni (fatwa) dei “dottori della legge” (fuqahà), le quali tuttavia diventano  giuridicamente vincolanti per i fedeli solo quando su di esse si crea il “consenso” (ijma) della comunità, cioè quando vengono condivise da un numero particolarmente ampio ed autorevole di dottori. A queste tre fonti principali se ne aggiunge un’altra, costituita dal ragionamento analogico (qiyas), la più controversa, in quanto essendo l’analogia il frutto di un processo umano, basato essenzialmente sull’interpretazione di un precetto (divino) allo scopo di estenderne il senso ad altri casi simili, è sempre stata, storicamente, causa di conflitto tra i giuristi-teologi, perché da parte di alcuni si riteneva che il colmare un'apparente lacuna divina tramite la ragione umana costituisse un atto di empietà.

Accanto alle fonti ufficiali del diritto islamico appena citate, esistono poi altri principi meno sistematicamente usati, ma che comunque integrano le precedenti fonti nei vari paesi di diritto musulmano, evidenziando ancora più le diversità di applicazione di tale diritto nei vari Paesi che lo adottano. Si tratta del criterio della scelta preferenziale, dell’interesse generale (maslaba), della presunzione di continuità, le consuetudini (urf), i decreti del sovrano (qanun). Tali differenziazioni sono ulteriormente accentuate dall’adozione, da parte di gran parte degli stati islamici, di una serie di codici di impronta occidentale, per lo più introdotti a seguito delle colonizzazioni (cd. “acculturazione” del diritto islamico) (3).

Sarebbe dunque sbagliato credere che il diritto musulmano sia un corpus juris coerente ed uniforme valido per tutti i musulmani, non essendo esso il solo riferimento legislativo nei paesi arabo-musulmani. Questi paesi infatti, pur dichiarando il diritto musulmano come una fonte, o la fonte principale del loro diritto, hanno costruito dei sistemi giuridici ibridi che mescolano norme ispirate alla tradizione del diritto musulmano classico con norme tipiche del diritto occidentale. Cosa che non può non creare conflitti, a volte violenti, tra lo Stato e gli ambienti religiosi.

Possiamo dunque constatare come via sia un riavvicinamento tra i tre sistemi giuridici, laddove nei Paesi anglosassoni si fa oggi maggior ricorso alle leggi, nei Paesi continentali le pronunce giurisprudenziali assumono sempre maggior rilievo nella risoluzione delle controversie e nei Paesi di diritto islamico si verifica la recezione di istituti e modelli normativi sia di civil che di common law. Senza tenere conto poi, degli episodi di “coesistenza”, all’interno di uno stesso Stato, tra sistemi giuridici diversi (cd. “bigiurdismo”): ad esempio l'area francofona del Québec, in Canada o lo Stato della Louisiana, negli USA, appartenenti alla famiglia dei Paesi di civil law, ma inseriti sistemi giuridici di common law.

Un’ultima considerazione che va fatta a proposito del diritto islamico, è quella che esso esce fuori da quella logica binaria in cui si usa classificare gli atti giuridici nei paesi occidentali: alle categorie del lecito e dell'illecito, nel mondo islamico si sostituiscono quelle dell’atto proibito (haram), riprovato (makruh), permesso (mubah), raccomandato (mandub) ed obbligatorio (wajib). Dinanzi ad ogni aspetto della vita quotidiana infatti, che sia il cibarsi, la pratica di un’attività lavorativa o di un’attività sportiva, o piuttosto un’operazione commerciale, il musulmano deve continuamente chiedersi: si tratta di un atto proibito, riprovato, permesso, raccomandato o obbligatorio? La risposta a questo interrogativo il musulmano deve ricercarla soprattutto nel corano, considerato messaggio divino che mira a condurre l’umanità verso ciò che è il bene, essendo Dio solo in grado di decidere ciò che è buono ed ciò che è male. Se nel corano non v’è una risposta chiara, egli farà riferimento alla tradizione (sunnah). Accanto a queste due fonti scritte, il giurista musulmano moderno poi si riferisce alla tradizione dei compagni di Maometto, agli scritti dei giuristi classici che hanno sistematizzato il diritto musulmano ed alle opinioni delle autorità religiose moderne espresse in particolare sotto forma di fatwa.

Da tali considerazioni emergono tutte le difficoltà che il giurista può incontrare ogni volta che tenti di trasporre un istituto da un tipo di ordinamento all’altro. Valga come esempio quello del “trust”, istituto tipico dei Paesi di common law, che diversi paesi di civil law hanno tentato di introdurre nei propri ordinamenti, ottenendone solo uno snaturamento dell’istituto, dovuto al tentativo di “forzarlo” a tutti i costi entro le loro categorie giuridiche (si veda ad es. Trib. d’Arrondissement Luxembourg, che con sentenza del 20/1/1971, lo definì “contratto misto di mandato, donazione e contratto a favore di terzo”). Proprio per evitare tale snaturamento è stata stipulata, il 1 luglio 1985, la Convenzione dell’Aja, che impone il riconoscimento del trust in quanto tale.

In Europa, l’unico Paese di civil law che da diversi anni sta tentando di introdurre l’istituto all’interno del proprio ordinamento è la Francia, creando quello che è stato definito “il gemello dell’istituto del trust nei paesi di civil law”, con l’istituto della “fiducie” (4), il quale, pur presentando notevoli affinità con il trust, se ne distingue notevolmente, rientrando piuttosto nello schema del contratto a favore di terzo.


Bibliografia:
1-  M. Bastarache, juge de la Cour suprême du Canada, « Le bijuridisme au Canada », su sito del Ministero delle Giustizia canadese2 (
www.canada.justice.gc.ca/fr/dept/pub/hfl/fasc1/fascicule_1g.html)
2-  Mohammed Wasiullah Khan, "Education and Society in the Muslim World", ed. Hodder and Stoughton - King Abdulaziz University - Jeddah, 1981
3- D. Desiderio, “Il ruolo della Islamic law”, in Scint:
www.scint.it, sezione commercio internazionale
4-  L’istituto della fiducie è espressamente previsto dal codice civile del Quebéc canadese


Autore: Danilo Desiderio


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