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L’Africa in fermento, le Nazioni Unite disarmate |
Notizie allarmanti giungono dall’Africa: le catastrofi del Novecento non sembrano aver insegnato nulla, almeno nel Continente Nero. Ad alcuni anni di distanza dal genocidio dei Tutsi, in Ruanda, la situazione politico-sociale è esplosiva in più di uno Stato. In Sierra Leone infuria la guerra civile. Dal 1991 il RUF (Revolutionary United Front) conduce i suoi attacchi con l’appoggio di alcuni “signori della guerra” liberiani così che, dopo dieci mesi di pace precaria propiziata dall’intervento delle Organizzazioni Internazionali, il conflitto è di nuovo aperto, grazie soprattutto ai ribelli che hanno violato gli accordi di Lomé e catturato 800 uomini delle Nazioni Unite. Il Corno d’Africa vive il dramma delle carestie, perché il denaro per sfamare gli indigenti continua a esser destinato alle azioni belliche (l’Etiopia, uno dei Paesi più poveri del mondo, è dotata di un arsenale d’armi modernissimo), mentre i leaders etìopi ed eritrei, un tempo alleati nella lotta contro il dittatore Mengistu Hailè Mariam, minacciano nuovi scontri. Il regime di Mengistu fu rovesciato nel 1991 e la nuova leadership etìope sostenne l’indipendenza eritrea proclamata due anni dopo: le relazioni tra i due Stati si deteriorarono a causa di dispute economiche e soprattutto di confine, così che la guerra esplose nel 1998, quando l’Eritrea occupò una vasta fetta di territorio d’Etiopia. Nel febbraio dello scorso anno Addis Abeba è riuscita riconquistare parte del territorio perduto, frattanto le ostilità si sono prolungate fino a giugno, quando è entrata in vigore una sorta di tregua non formalizzata, interrottasi e soppiantata da nuovi e cruenti scontri. Di fronte a queste urgenze, ora come nel recente passato, l’ONU sembra impotente. Sette anni fa, in Somalia, fu sconfitta, e da allora Mogadiscio è terra di nessuno. Lo scorso Luglio, in Sierra Leone, iniziò una missione di pace di seimila Caschi blu: a febbraio il Consiglio di Sicurezza ha deciso di aumentare il contingente ad undicimila uomini. Risultato: i ribelli tengono in scacco l’UNAMSIL, la missione delle Nazioni Unite nel Paese. La guerra tra Etiopia ed Eritrea è stata al centro delle attività diplomatiche dell’ONU (e dell’OUA, l’Organizzazione per l’Unità Africana), conclusesi però con un fallimento. Quale soluzione per un intervento più efficace? Kofi Annan ha supplicato il mondo di non fallire in Africa, un rimprovero implicito e un invito a non considerare concluso il secolo degli orrori. La sua supplica tuttavia ha qualcosa di vano, oltre che di disperato: è la preghiera di chi manda i soldati nei conflitti senza un’idea dei pericoli della morte che è in agguato, il contingente di pace, infatti, spesso non ha opportunità di difendersi per scarsezza di mezzi e mancanza di strutture. Il problema è che l’ONU non è in grado di fare la guerra per imporre la pace. Non ne ha la vocazione, manca di strutture perché non s’è mai formato uno Stato Maggiore militare: Le Nazioni Unite sono votate alla cultura della pace, dell’accordo, non dello scontro armato, perché abilitate al “peackeeping”, al mantenimento della pace, non al “peacemaking”, alla sua imposizione, che compete sempre più alle grandi potenze. Il vero errore, in Sierra Leone come nel Corno d’Africa, è stato pensare che un accordo di pace potesse risolvere la tragedia: le prospettive di un immediato cessate il fuoco sembrano molto lontane ed entrambe le popolazioni, comunque andranno a finire le cose, perderanno. Come può dunque l’ONU non capitolare di fronte alla sopraffazione dei nazionalismi africani, che mostrano i muscoli impugnando le frontiere imposte dal colonialismo di inizio XX secolo? Restano aperte due strade: la prima è di affidare ad un’organizzazione regionale – ad esempio la Nato – il compito di ristabilire la pace nelle rispettive zone di influenza. Altra possibile via è la costituzione di una “coalizione dei volenterosi”, dei Paesi maggiormente interessati, che diano vita ad una forza multilaterale sotto la diretta responsabilità di uno di essi. Negli ultimi decenni le vittime dei conflitti in Africa sono state 4-5 milioni, si aggiungano poi le malattie: l’Aids prima di tutte, ma anche la malaria e la tubercolosi dècimano le popolazioni senza sosta: si parla di 13 milioni di morti. Risolvere una crisi, a Freetown come ad Addis Abeba o Asmara (ma anche intervenendo in Zimbabwe, dove il leader Chenjerai Hunzvi aiuta gli ex combattenti dell’indipendenza a occupare le fattorie dei bianchi e a ucciderne i padroni), significherebbe stabilire un cruciale precedente, e gettare le basi per una politica più vasta e più attiva di assistenza, sviluppo economico e riforme. La disattenzione dell’Occidente per l’Africa incomincia a pesare sulle coscienze dei suoi leaders, le potenze paiono rendersi conto che nel dopo guerra fredda l’area più a rischio del mondo è proprio il Continente Nero. Urge che degli errori commessi in Europa nella storia recente si faccia tesoro, e presto, anche lì.
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Autore: Walter Giacardi |
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