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Sei in: Approfondimenti La giurisprudenza
Corte costituzionale, Sentenza 26 giugno 2002, n. 284
[...] nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, 10 e 25 del regio decreto legge 21 febbraio 1938, n. 246, recante la "Disciplina degli abbonamenti alle radioaudizioni", convertito dalla legge 4 giugno 1938, n. 880; e degli artt. 15 e 16 della legge 14 aprile 1975, n. 103, recante "Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva", "e norme ivi citate", promosso con ordinanza emessa l'11 maggio 2001 dal Tribunale di Milano, iscritta al n. 780 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 2001.

Visti gli atti di intervento della RAI-Radiotelevisione Italiana s.p.a. e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 7 maggio 2002 il Giudice relatore Valerio Onida;

uditi gli avvocati Massimo Luciani e Filippo Satta per la RAI-Radiotelevisione Italiana s.p.a. e l'avvocato dello Stato Ivo M. Braguglia per il Presidente del Consiglio dei ministri.

RITENUTO IN FATTO

1.- Nel corso del giudizio di opposizione a ingiunzione emessa dall'Ufficio registro abbonamenti radio (URAR) e TV di Torino per il mancato pagamento del canone, il Tribunale di Milano, su eccezione della parte, con ordinanza emessa l'11 maggio e pervenuta il 5 settembre 2001, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 9 e 21 della Costituzione, degli artt. 1, 10 e 25 del regio decreto legge 21 febbraio 1938, n. 246, recante "Disciplina degli abbonamenti alle radioaudizioni", convertito dalla legge 4 giugno 1938, n. 880, nonché degli artt. 15 e 16 della legge 14 aprile 1975, n. 103, recante "Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva", "e norme ivi citate".

Il remittente muove dal rilievo che l'art. 1 della legge n. 103 del 1975, fissando un principio di grande importanza programmatica, stabilisce che la diffusione circolare di programmi radiofonici e televisivi via etere, via filo o via cavo, e con qualsiasi altro mezzo, costituisce, ai sensi dell'art. 43 Cost., "un servizio pubblico essenziale ed a carattere di preminente interesse generale, in quanto volto ad ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese in conformità dei principi sanciti nella Costituzione", e che "l'indipendenza, l'obbiettività e l'apertura alle diverse tendenze politiche, sociali e culturali, nel rispetto delle libertà garantite dalla Costituzione, sono principi fondamentali della disciplina del servizio pubblico radiotelevisivo". Con tali principi, ad avviso del giudice a quo, e con gli stessi articoli 2, 3, 9 e 21 Cost., sembrerebbero in contrasto, sotto il profilo della ragionevolezza, i successivi artt. 15 e 16 della stessa legge, che, rispettivamente, dispongono che il fabbisogno finanziario per la gestione dei detti servizi "è coperto con i canoni di abbonamento alle radioaudizioni ed alla televisione di cui al r.d.l. 21 febbraio 1938, n. 246", e che "la riscossione dei canoni di abbonamento ordinario alle radioaudizioni e alla televisione, nonché la devoluzione dei canoni stessi restano regolati dalle vigenti disposizioni", mentre "la misura del canone dovuto dalla concessionaria allo Stato è stabilita dalla convenzione" disciplinata dall'art. 46 della stessa legge. Se infatti la finalità del servizio pubblico è di realizzare i detti diritti fondamentali dei cittadini, costituzionalmente garantiti, susciterebbe perplessità l'imposizione di un onere economico per la realizzazione di ciò che, rientrando nei compiti primari della Repubblica, rappresenterebbe "per il cittadino un diritto di cui egli deve usufruire liberamente".

Dopo aver richiamato i termini delle convenzioni, approvate con i d.P.R. 28 marzo 1994 e 29 ottobre 1997, tra il Ministero delle poste e telecomunicazioni e la RAI-Radiotelevisione italiana s.p.a. per la concessione a quest'ultima "in esclusiva sull'intero territorio nazionale del servizio pubblico di diffusione di programmi radiofonici e televisivi", concessioni in forza delle quali essa è deputata a provvedere "nell'ambito degli indirizzi impartiti dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, ad organizzare ed a svolgere il servizio pubblico in modo da garantire la più ampia rappresentanza delle istanze politiche sociali e culturali presenti a livello nazionale e locale, nel Paese", l'autorità remittente osserva che tale funzione assegnata alla RAI, che di fatto non differirebbe da quella delle emittenti private, non sarebbe mai assunta come ragione giustificatrice del canone posto a carico del potenziale utente, e anzi creerebbe in capo alla RAI una posizione dominante in contrasto con la legge. Nessuna disposizione di legge darebbe ragione del motivo per cui, per il solo fatto di possedere un apparecchio potenzialmente atto a captare le trasmissioni, ed anche qualora la ricezione risulti di fatto impossibile, il cittadino utente potenziale dovrebbe corrispondere una tassa alla sola concessionaria del servizio pubblico, mentre numerose disposizioni giustificano l'assoggettamento ad una tassa delle società emittenti di trasmissioni radiotelevisive.

Secondo il giudice a quo, il presupposto della tassa pretesa dall' URAR-TV sarebbe stato individuato dalla giurisprudenza nel "dominio dell'etere da parte dello Stato, con il conseguente potere di imposizione fiscale", dominio in forza del quale verrebbero discrezionalmente assegnate alle emittenti le licenze e le diverse bande di frequenza. Sotto tale profilo, la detenzione di un apparecchio atto a captare le trasmissioni via etere non potrebbe più costituire il presupposto per l'imposizione di una tassa "prevista e dovuta a favore di un solo concessionario in esclusiva per l'utilizzo dell'etere", anzitutto "perché una simile esclusiva di fatto non esiste ed in secondo luogo perché … creerebbe oggi una disparità evidentissima di trattamento tra chi riceve le trasmissioni televisive attraverso la normale televisione e chi le ricevesse (addirittura migliori), attraverso l'utilizzo della scheda adattata al computer, ovvero chi non le ricevesse affatto (pur avendo l'apparecchio per vedere films videoregistrati)". Il governo dell'etere, poi, riguarderebbe le emittenti che pagano, per ottenere la concessione governativa, una tassa che non sono autorizzati a riversare sul cittadino, mentre il canone di abbonamento alle radioaudizioni non è mai stato giustificato con la finalità di recuperare dall'utente il costo del tributo pagato dall'emittente per ottenere la concessione. In tale ultima ipotesi, sarebbe ravvisabile la violazione degli artt. 3 e 21 Cost., ove si consideri che con le trasmissioni via internet l'uso dell'etere è gratuito, e l'utente, talvolta, corrisponde un prezzo al provider, anzitutto in modo volontario, e poi per il solo periodo di utilizzazione della trasmissione.

In un contesto di trasmissioni via etere tecnologicamente avanzato, quindi, sarebbe irragionevole e darebbe luogo a disparità di trattamento l'obbligo per il detentore di un apparecchio televisivo di corrispondere una tassa ad una società di diritto privato come la RAI, sulla base di una normativa, dettata per un sistema di monopolio, priva del carattere di generalità che la norma di legge deve avere, nell'imporre un determinato precetto a tutti i soggetti che si trovino nella medesima situazione.

Ad avviso del giudice a quo, la previsione del canone - tassa a carico del cittadino - aveva un fondamento quando era l'EIAR, poi RAI, "l'unica concessionaria di un servizio pubblico". Oggi la RAI avrebbe natura di "semplice concessionaria governativa (al pari delle altre emittenti) del servizio in questione", in un regime di "concessioni governative all'utilizzo dell'etere da parte di ogni emittente che voglia diffondere le proprie trasmissioni", emittenti che "si trovano nella sua [della RAI] stessa situazione e non hanno diritto né potere per poter imporre un canone". Né può essere considerata di preminente interesse pubblico l'attività della RAI per il solo limite alla diffusione di messaggi pubblicitari, perché tutte le emittenti soggiacciono alla stessa "regolamentazione allorché le trasmissioni riguardino il pubblico interesse", come ad esempio quanto al "rispetto della par condicio durante la campagne elettorali".

Il panorama del settore, secondo il giudice a quo, è quello di una pluralità di emittenti che si distinguono tra loro per la sola matrice locale o nazionale, nell'ambito della quale i programmi mandati in onda dalla RAI non differiscono da quelli delle altre emittenti nazionali che per il logo che le contraddistingue sull'angolo del teleschermo. Non sussisterebbe differenza tra il "servizio pubblico" della RAI ed il servizio "offerto al pubblico" dalle altre emittenti. Di conseguenza, non avrebbe razionale giustificazione una tassa da corrispondere alla sola "emittente pubblica" sul solo presupposto della detenzione di un apparecchio "atto a ricevere un servizio "pubblico" dal contenuto uguale a quello offerto dal "servizio privato" e indipendentemente dal fatto che [si] usufruisca sia dell'uno che dell'altro".

La fruizione del "servizio pubblico" delle trasmissioni radiotelevisive, "finalizzato alla pluralistica obiettività dell'informazione e al soddisfacimento culturale dell'utente" non può, osserva infine il giudice a quo, giustificare la soggezione di quest'ultimo ad una tassa, perché il carattere "pubblico" dell'informazione dovrebbe semmai costituire la causa della sua gratuità, per la funzione riservata alla concessionaria.

2.- La RAI, Radio Televisione Italiana s.p.a., ha depositato un atto difensivo, chiedendo di dichiarare ammissibile il suo intervento nel giudizio incidentale, in quanto, pur non essendo essa parte nel giudizio principale, sarebbe tuttavia titolare di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato, che potrebbe essere compromesso o soddisfatto dall'esito dell'incidente di legittimità costituzionale.

In proposito la RAI ricorda innanzitutto le considerazioni svolte nella sentenza n. 31 del 2000, che superavano l'interpretazione letterale del dato normativo, in ordine all'accesso al giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo di soggetti ulteriori rispetto ai promotori, ed osserva che anche il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, pur essendo sovente destinato ad incidere sulle situazioni soggettive dei singoli, si connota come un controllo di diritto oggettivo sulla costituzionalità delle norme censurate, sicché, anche se nel giudizio possono esservi parti, esso non concerne le situazioni giuridiche delle parti, ma le norme nella loro oggettività. Richiama poi le decisioni di questa Corte che hanno "aperto" l'accesso al giudizio incidentale a soggetti diversi dalle parti nel giudizio principale, nei casi in cui l'interesse che si vuol far valere sia giuridicamente qualificato, differenziato e protetto (viene citata, tra le altre decisioni, la sentenza n. 178 del 1996, che ammise l'intervento della Congregazione cristiana dei Testimoni di Geova nel giudizio relativo alla previsione della indeducibilità ai fini IRPEF delle elargizioni liberali da parte dei fedeli, in quanto, pur essendo estranea al giudizio tributario a quo, "essa è portatrice di un interesse specificatamente proprio e qualificato per il fatto di essere destinataria della elargizione liberale della cui deducibilità si discute nel giudizio a quo"). Nella specie, infatti, la società interveniente assume di essere titolare di un interesse diretto ed individualizzato - che non potrebbe far valere in sede diversa - perché principale destinataria delle somme ricavate dai versamenti del canone di abbonamento, ai sensi dell'art. 27, comma 8, della legge 23 dicembre 1999, n. 488 ("Il canone di abbonamento alle radioaudizioni circolari e alla televisione è attribuito per intero alla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, ad eccezione della quota già spettante all'Accademia di Santa Cecilia"), e di un interesse specificamente proprio, in quanto l'esito del presente giudizio avrebbe effetti diretti sui suoi diritti patrimoniali. L'Amministrazione finanziaria, competente alla riscossione coattiva del canone, provvede a corrispondere "le quote dei canoni di abbonamento spettanti alla concessionaria … sulla base delle previsioni complessive di entrata del bilancio dello Stato e delle riscossioni effettuate, mediante acconti trimestrali posticipati e salvo conguaglio alla fine di ciascun anno finanziario" (art. 31 del d.P.R. 8 febbraio 2001, recante l'approvazione del contratto di servizio tra il Ministero delle comunicazioni e la RAI), mentre la RAI si limita a formare gli elenchi dei soggetti tenuti a corrispondere il canone. L'interveniente, quindi, pur essendo rimasta estranea al giudizio a quo, vedrebbe gravemente incisa la propria posizione dall'accoglimento dell'opposizione proposta in detto giudizio, che conseguirebbe all'accoglimento della presente questione, sicché - sostiene - deve far valere le proprie ragioni nel giudizio di legittimità costituzionale.

Passando all'esame della questione, la difesa della RAI ne eccepisce l'inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza e, nel merito, l'infondatezza.

In ordine alla rilevanza, l'ordinanza di rimessione, oltre che essere priva di motivazione, non descriverebbe la fattispecie oggetto del giudizio, ed in particolare non consentirebbe di comprendere se alla base dell'opposizione all'ingiunzione di pagamento fossero censure relative alla procedura per sottrarsi all'obbligo, ovvero alla stessa previsione dell'obbligo di corrispondere il canone. Nella prospettazione della questione sarebbe, comunque, ambiguo l'oggetto del dubbio di costituzionalità, se cioè esso sia la legittimità del canone in sé - e quindi gli artt. 1 e 25 del r.d.l. n. 246 del 1938 e gli artt. 15 e 16 della legge n. 103 del 1975 -, ovvero l'eccessiva onerosità della procedura da seguire da chi non intende più fruire delle radioaudizioni e continui a detenere l'apparecchio - art. 10 del r.d.l. n. 246 del 1938.

La questione è, secondo la difesa della RAI, comunque infondata. Anzitutto, il giudice remittente muoverebbe dall'erronea qualificazione del canone come tassa, e cioè una sorta di prezzo pagato dall'utente per la fruizione del servizio, laddove l'imposizione tributaria sarebbe definibile piuttosto - secondo la giurisprudenza, anche di questa Corte - come imposta, il cui presupposto è il possesso di "uno o più apparecchi adattabili alla ricezione delle radioaudizioni", considerato indice di capacità contributiva. Le relative disposizioni potrebbero, semmai, indubbiarsi di incostituzionalità quanto alla adeguatezza e alla ragionevolezza di un siffatto indice di capacità contributiva individuato dal legislatore, ma l'ordinanza di rimessione argomenta invece intorno ad un (inesistente) legame tra esazione del tributo e destinazione dei proventi del medesimo, pretendendo di far derivare da tale inesistente nesso l'illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate. La destinazione delle somme percepite dallo Stato in forza del tributo de quo agitur sarebbe questione del tutto diversa, essendo tenuto il possessore dell'apparecchio per ciò solo al pagamento dell'imposta, a nulla rilevando che l'oggetto della sua obbligazione venga destinato (peraltro solo pro quota) dallo Stato alla RAI per finanziare il servizio pubblico televisivo; in altri termini, in base alla legislazione vigente, i possessori dei detti apparecchi sarebbero comunque tenuti al pagamento del canone, anche qualora, per ipotesi, non vi fosse più un concessionario del servizio pubblico radiotelevisivo (cfr. art. 15, secondo comma, della legge n. 103 del 1975).

Non vi sarebbe dunque spazio per una dichiarazione di illegittimità costituzionale fondata sulla irragionevolezza della attribuzione alla RAI dei proventi del canone, in quanto le disposizioni costitutive della obbligazione non assumono a causa giustificatrice il finanziamento del servizio pubblico radiotelevisivo, ma la polizia e l'amministrazione dell'etere, su cui lo Stato è sovrano (viene richiamata, in proposito, la sentenza di questa Corte n. 535 del 1988). Nell'ordinanza di rimessione, precisa la RAI, si sovrapporrebbero i due piani dell'imposizione del tributo e delle sue ragioni giustificatrici, e della destinazione dei relativi proventi, mentre le censure, di sapore prettamente politico, riferite al secondo profilo, area di piena discrezionalità amministrativa, verrebbero utilizzate per colpire il primo di essi.

Nel giudizio a quo, in ogni caso, non troverebbero applicazione le norme sulla ripartizione dei proventi del canone, sicché la relativa questione, adombrata in apertura dell'ordinanza - l'asserita discriminazione dei soggetti tenuti al pagamento del canone in ragione della corresponsione dei proventi alla sola RAI e non già a tutti i concessionari esercenti attività radiotelevisiva -, sarebbe inammissibile per irrilevanza.

Quanto all'argomento, invero non formulato come profilo di incostituzionalità, relativo alla disparità di trattamento rispetto ai possessori di altro apparecchio, come un elaboratore elettronico munito di apposita scheda, esso sarebbe privo di fondamento, in quanto anche tali apparecchi integrano il presupposto dell'obbligazione tributaria in discorso, a norma dell'art. 1 del r.d.l. n. 246 del 1938, formulato in modo conforme al canone di eguaglianza e di non discriminazione.

Nella seconda parte dell'atto, la difesa della RAI replica alle argomentazioni dell'ordinanza di rimessione intese ad equiparare la stessa RAI agli altri concessionari radiotelevisivi per destituire di fondamento il canone, compiendo un ampio excursus sulla storia giuridica delle radioaudizioni nel nostro Paese, a partire dalla legge 30 giugno 1910, n. 395, con la quale lo Stato riservò a se medesimo l'impiego delle onde hertziane ai fini, tra l'altro, di radiodiffusione, con facoltà di accordare l'esercizio delle relative attività a soggetti pubblici o privati mediante concessioni o licenze, e poi dal r.d. 14 dicembre 1924, n. 2191, istitutivo del servizio, affidato in concessione alla società URI, concessione cui accedeva una convenzione contenente prescrizioni relative al contenuto dei programmi e agli altri obblighi gravanti sulla concessionaria: già allora il fondamento del servizio pubblico delle radioaudizioni si rinveniva nel "suo carattere di pubblica utilità in relazione agli scopi, cui esso risponde, di ordine educativo, artistico e culturale che interessino la generalità dei cittadini". Con l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il servizio pubblico radiotelevisivo avrebbe trovato in essa diretto fondamento, e quel che prima era frutto di scelta legislativa sarebbe divenuto "atto necessario", come avvertito da questa Corte già dalla sentenza n. 59 del 1960, e quindi, dopo l'apertura del settore radiotelevisivo ai soggetti privati (infine con la legge n. 223 del 1990), con la sentenza n. 826 del 1998.

Nell'atto di intervento vengono precisati, anche con riferimento alle successive pronunce di questa Corte, i caratteri del sistema radiotelevisivo disegnato dalla legge n. 223 del 1990, il fondamento costituzionale dell'attività dei concessionari privati e quello dell'attività svolta dal concessionario del servizio pubblico, del quale viene ricostruito il complessivo regime giuridico, con analitica disamina del quadro normativo.

Si sottolinea, all'esito di tale esame, come l'attività di servizio pubblico debba essere remunerata dallo Stato concedente, e come, diversamente da quanto affermato dal remittente, la destinazione dei proventi del canone a tale finalità di remunerazione trovi giustificazione piena e perfettamente conforme alla Costituzione.

L'infondatezza della questione, prosegue la RAI s.p.a., si evincerebbe, per altro verso, dalla disciplina del canone, alla luce della quale è chiara, da una parte, la sua natura tributaria e la ragionevolezza della sua imposizione; dall'altra, la netta cesura fra il momento fiscale e quello di attribuzione patrimoniale alla società concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo.

Vengono quindi esaminati i vari atti normativi che nel corso del tempo, a partire dal r.d. 8 febbraio 1923, n. 1067, hanno disciplinato l'esercizio di "stazioni semplicemente riceventi", prevedendo la corresponsione allo Stato, e in un primo periodo anche al concessionario, di tasse di licenza, di concessione governativa, di diritti, e così via, dal sistema di cd. concessione plurima a quello di concessione esclusiva, sino a che l'obbligazione, con il r.d.l. n. 2207 del 1927, acquisì la sua definitiva fisionomia di canone, con il superamento della doppia voce - una per lo Stato ed una per il concessionario - e l'unificazione della sua misura in lire 72 per anno, canone versato al Ministero delle finanze, che provvedeva al termine dell'esercizio finanziario "al versamento a favore del concessionario delle somme ad esso dovute sui proventi alle tasse e dei contributi, dedotta, anche su questi ultimi, una quota del 10 per cento che resta devoluta allo Stato" (art. 16).

Si dà quindi conto della successiva normativa avente ad oggetto il canone per il servizio pubblico radiotelevisivo, quanto a misura, competenza e procedimento per la sua variazione, destinazione dei proventi, riscossione.

Infine, in ordine alla censura relativa alla asserita onerosità del procedimento da seguire per sottrarsi al pagamento del canone, la RAI ne eccepisce la inammissibilità, non essendo la norma denunciata applicabile in un giudizio di opposizione come è quello principale; nel merito, osserva come appartenga alla discrezionalità del legislatore l'identificazione delle modalità da seguire per dimostrare la non assoggettabilità ad un obbligo tributario, ove si sia precedentemente manifestato il necessario indice di capacità contributiva. Tali modalità, poi, non sono in concreto così onerose da rendere impossibile per il contribuente detta dimostrazione.

3.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, che ha concluso per l'infondatezza della questione.

Dopo aver premesso che il canone di abbonamento alla televisione è - secondo la giurisprudenza di legittimità, ma anche secondo l'orientamento di questa Corte (sentenza n. 81 del 1963 e poi sentenza n. 535 del 1988) - un tributo (imposta) il cui presupposto è "ancorato all'attitudine o all'adattabilità di un apparecchio alla ricezione di qualsiasi emittente radiofonica o televisiva, italiana o straniera, pubblica o privata", la difesa erariale osserva che, per quel che attiene alle modalità di disdetta dall'abbonamento, previste dall'art. 10 del r.d.l. n. 246 del 1938, esse sono dirette ad evitare la facile evasione del tributo, e che, tuttavia, non viene evocato come parametro nell'ordinanza l'art. 53 Cost. Rileva poi che, essendo l'imposizione tributaria svincolata da qualunque rapporto di corrispettività, anche rispetto alla fruizione del servizio pubblico, sarebbe infondato ogni dubbio di irragionevolezza degli artt. 15 e 16 della legge n. 103 del 1975.

Neppure sarebbero, perciò, pertinenti gli argomenti del giudice a quo che pongono a raffronto la concessionaria del servizio pubblico e le emittenti private, adombrando una posizione di dominanza assunta dalla prima, essendo dovuto il canone perché si è in grado di ricevere trasmissioni televisive dell'una e delle altre, nonché delle emittenti straniere. La capacità contributiva sussisterebbe, secondo l'ordinanza n. 219 del 1989 di questa Corte, anche se zone d'ombra di fatto impedissero la ricezione.

Considerato che l'individuazione del presupposto dell'imposizione è nel possesso dell'apparecchio atto a ricevere, e non nel "dominio dell'etere" da parte dello Stato, non sarebbero pertinenti i rilievi del giudice a quo in ordine alla diversità dei mezzi attraverso i quali si possono ricevere le trasmissioni televisive, ivi compresa la via Internet, atteso che l'imposta in discorso deve essere pagata allo Stato, e non al concessionario del servizio, e che le norme sospettate di illegittimità costituzionale presentano carattere di generalità, essendo applicabili a tutti coloro che detengono un apparecchio atto a ricevere trasmissioni televisive, da emittenti pubbliche o private, nazionali o estere.

4.- In prossimità dell'udienza pubblica ha depositato memoria la RAI- Radiotelevisione italiana s.p.a., insistendo nelle domande già proposte.

Dopo aver illustrato le ragioni a sostegno dell'ammissibilità del suo intervento, la RAI si sofferma sui motivi della inammissibilità della questione sollevata (carenza di motivazione sulla rilevanza, mancata compiuta descrizione della fattispecie, contraddittorietà e perplessità dell'ordinanza).

Nel merito, rilevato il tenore confuso dell'atto introduttivo del presente giudizio, richiama la natura del canone di abbonamento, concludendo per l'infondatezza della questione.

Inammissibile, poi, sarebbe il dubbio di disparità di trattamento fra la concessionaria del servizio pubblico e le altre emittenti, in quanto non si controverte sulle norme relative alla ripartizione dei proventi del canone; oltretutto, le situazioni non sarebbero confrontabili, atteso che solo sulla RAI grava l'obbligo di assicurare il servizio pubblico, il quale ha funzione di riequilibrio nel contesto di un sistema fondato sul doppio pilastro del pluralismo esterno e del pluralismo interno.

Infine, sarebbe inesistente la questione relativa alle modalità di disdetta del canone, di cui all'art. 10 del r.d.l. n. 246 del 1938, essendo menzionata la disposizione, non applicabile nel giudizio a quo, solo nell'incipit dell'ordinanza, cui non segue alcuna motivazione. Tale questione, in ogni caso, sarebbe infondata, considerata la non onerosità delle formalità prescritte dalla norma.

5.- Con ordinanza allegata, letta in udienza, l'intervento della RAI-Radiotelevisione Italiana s.p.a. è stato dichiarato ammissibile.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- Il Tribunale di Milano solleva questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 2, 3, 9 e 21 della Costituzione, degli articoli 1, 10 e 25 del regio decreto legge 21 febbraio 1938, n. 246 (Disciplina degli abbonamenti alle radioaudizioni), convertito dalla legge 4 giugno 1938, n. 880, "e successive integrazioni e modificazioni", nonché degli articoli 15 e 16 della legge 14 aprile 1975, n. 103 (Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva), "e norme ivi citate".

Il r.d.l. n. 246 del 1938 contiene la disciplina, tuttora in vigore, del canone di abbonamento alle radioaudizioni e alla televisione. In particolare, l'art. 1, primo comma, del decreto detta la norma fondamentale in materia, secondo cui "chiunque detenga uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento". L'art. 10 detta le condizioni e le procedure attraverso le quali chi non intenda o non possa più usufruire delle radioaudizioni circolari pur continuando a detenere l'apparecchio, ovvero intenda cedere l'apparecchio, può ottenere di essere dispensato dal pagamento del canone. L'art. 25 disciplina la riscossione e il versamento dei canoni e delle relative sopratasse e pene pecuniarie. Le tre disposizioni impugnate sono vigenti nel loro testo originario, non avendo subito alcuna modificazione o integrazione.

A sua volta, l'art. 15 della legge n. 103 del 1975 stabilisce fra l'altro che "il fabbisogno finanziario per una efficiente ed economica gestione dei servizi di cui all'articolo 1" - vale a dire il servizio pubblico di "diffusione circolare di programmi radiofonici via etere o, su scala nazionale, via filo e di programmi televisivi via etere, o, su scala nazionale, via cavo e con qualsiasi altro mezzo" - "è coperto con i canoni di abbonamento alle radioaudizioni ed alla televisione di cui al r.d.l. 21 febbraio 1938, n. 246", nonché con i proventi della pubblicità e con altre entrate (primo comma); e precisa che "il canone di abbonamento e la tassa di concessione governativa, di cui al n. 125 della tariffa annessa al d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641, sono dovuti anche dai detentori di apparecchi atti o adattabili alla ricezione di trasmissioni sonore o televisive via cavo o provenienti dall'estero" (secondo comma), e che "la misura dei canoni è determinata secondo le norme dell'articolo 4 del d.lgs.lgt. 19 ottobre 1944, n. 347" (terzo comma: vale a dire dal Comitato interministeriale dei prezzi, con provvedimento emanato "dai ministri competenti").

Questo complesso normativo è ritenuto dal giudice remittente in contrasto con i citati principi costituzionali, essenzialmente sotto il profilo che, essendo - a suo giudizio - presupposto dell'imposizione del canone il cosiddetto "dominio dell'etere" da parte dello Stato, il quale assegna alle emittenti le bande di frequenza, non sarebbe oggi più giustificabile, e risulterebbe irragionevole, tale imposizione, collegata al semplice possesso dell'apparecchio, indipendentemente dalla effettiva fruizione dei servizi, e a favore del solo concessionario del "servizio pubblico", cioè della RAI-Radiotelevisione italiana: ciò sia perché si imporrebbe ai cittadini un onere economico per la fruizione di un diritto la cui realizzazione rientrerebbe per dettato costituzionale fra i compiti primari della Repubblica, sia perché, caduto il monopolio statale delle trasmissioni radiotelevisive, il servizio reso dalla RAI non si differenzierebbe da quello "offerto al pubblico" dalle emittenti radiotelevisive private. Il sistema vigente creerebbe poi una disparità di trattamento fra chi riceve le trasmissioni televisive attraverso l'apparecchio televisivo e chi le ricevesse invece con altri mezzi tecnici (scheda adattata al computer) o non le ricevesse affatto.

2.- La questione non è fondata.

Il cosiddetto canone di abbonamento alle radioaudizioni e alla televisione, benché all'origine apparisse configurato come corrispettivo dovuto dagli utenti del servizio riservato allo Stato ed esercitato in regime di concessione, ha da tempo assunto, nella legislazione, natura di prestazione tributaria, fondata sulla legge, come questa Corte riconobbe quando dichiarò non fondati i dubbi di legittimità costituzionale prospettati sotto il profilo della pretesa incompatibilità della tutela penale, allora apprestata in relazione all'adempimento del relativo obbligo, con l'asserita natura contrattuale del rapporto fra l'utente e la concessionaria (sentenza n. 81 del 1963). E se in un primo tempo sembrava prevalere la configurazione del canone come "tassa", collegata alla fruizione del servizio, in seguito lo si è piuttosto riconosciuto come imposta, facendo leva sulla previsione legislativa dell'art. 15, secondo comma, della legge n. 103 del 1975, secondo cui il canone è dovuto anche per la detenzione di apparecchi atti alla ricezione di programmi via cavo o provenienti dall'estero (sentenza n. 535 del 1988).

Sul piano costituzionale, ciò comporta che la legittimità dell'imposizione debba misurarsi non più in relazione alla possibilità effettiva per il singolo utente di usufruire del servizio pubblico radiotelevisivo, al cui finanziamento il canone è destinato, ma sul presupposto della sua riconducibilità ad una manifestazione, ragionevolmente individuata, di capacità contributiva. Ed è sotto tale profilo che questa Corte, chiamata a pronunciarsi in riferimento all'art. 53 della Costituzione, dichiarò non fondate le relative questioni, aventi ad oggetto gli articoli 1, 10 e 25 del r.d.l. n. 246 del 1938, ritenendo che l'indice di capacità contributiva consistente nella mera detenzione di un apparecchio radiotelevisivo non potesse considerarsi irragionevole (ordinanze n. 219 e n. 499 del 1989).

3.- L'odierno remittente, nell'impugnare ancora una volta le stesse norme, non ripropone però questo profilo schiettamente tributario della questione, ma piuttosto contesta la legittimità dell'imposizione ritenendola irragionevole, e in contrasto con i principi costituzionali in tema di promozione dello sviluppo della cultura e di libertà di manifestazione del pensiero, in quanto destinata quasi per intero al finanziamento della concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, la cui attività non sarebbe più dato di distinguere da quella degli altri concessionari, privati, di reti ed emittenti televisive. Se la diffusione di programmi radiotelevisivi - così ragiona il giudice a quo - costituisce un servizio pubblico essenziale a carattere di preminente interesse generale, avente la finalità di ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese, come si esprime l'art. 1 della legge n. 103 del 1975, non si giustificherebbe l'imposizione di un onere economico a carico degli utenti, e comunque non si giustificherebbe l'obbligo di corrispondere il canone a favore della sola concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo, poiché questa, oggi, non svolgerebbe una funzione diversa da quella di tutti gli altri concessionari, una volta venuta meno l'esclusiva del servizio a favore della RAI medesima.

E' però evidente, in primo luogo, come non vi sia alcuna incompatibilità fra il carattere di interesse generale del servizio pubblico radiotelevisivo e l'imposizione di una prestazione economica, nella specie collegata alla detenzione degli apparecchi radiotelevisivi, diretta a finanziare detto servizio. Al contrario, proprio l'interesse generale che sorregge l'erogazione del servizio pubblico può richiedere una forma di finanziamento fondata sul ricorso allo strumento fiscale. Il canone radiotelevisivo costituisce in sostanza un'imposta di scopo, destinato come esso è, quasi per intero (a parte la modesta quota ancora assegnata all'Accademia nazionale di Santa Cecilia), alla concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo (art. 27, comma 8, della legge 23 dicembre 1999, n. 488).

4.- La censura mossa nell'ordinanza di rimessione si regge dunque, in definitiva, essenzialmente sull'assunto secondo cui, venuto meno il regime di monopolio pubblico delle emissioni televisive anche a carattere nazionale, sarebbe irragionevole la imposizione di un canone destinato alla sola concessionaria RAI.

Ma questo assunto muove da un equivoco. Il venir meno del monopolio statale delle emissioni televisive - dapprima, a seguito di pronunce di questa Corte, con riguardo alle trasmissioni provenienti dall'estero (sentenza n. 225 del 1974) e con riguardo alle trasmissioni in ambito locale (sentenze n. 226 del 1974 e n. 202 del 1976), quindi, per scelta del legislatore, anche con riguardo alle trasmissioni via etere in ambito nazionale, prima in via transitoria (d.l. 6 dicembre 1984, n. 807), poi in via definitiva (legge 6 agosto 1990, n. 223) - non ha fatto venir meno l'esistenza e la giustificazione costituzionale dello specifico "servizio pubblico radiotelevisivo" esercitato da un apposito concessionario rientrante, per struttura e modo di formazione degli organi di indirizzo e di gestione, nella sfera pubblica.

Il remittente cita l'art. 1 della legge n. 103 del 1975, che definiva la diffusione circolare di programmi televisivi via etere come un "servizio pubblico essenziale ed a carattere di preminente interesse generale, in quanto volta ad ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese in conformità ai principi sanciti dalla Costituzione", servizio riservato per questo allo Stato; e indicava l'indipendenza, l'obiettività e l'apertura alle diverse tendenze politiche, sociali e culturali, nel rispetto delle libertà garantite dalla Costituzione, come "principi fondamentali della disciplina del servizio pubblico radiotelevisivo". Ma quella legge disciplinava un sistema che, all'epoca, era ancora di monopolio statale delle emissioni televisive di ambito nazionale. Oggi si deve fare riferimento all'art. 1 della legge n. 223 del 1990, che da un lato conferma il "carattere di preminente interesse generale" della diffusione di programmi radiofonici o televisivi (comma 1), e conferma che il pluralismo, l'obiettività, la completezza e l'imparzialità dell'informazione, nonché l'apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose, nel rispetto delle libertà e dei diritti garantiti dalla Costituzione, rappresentano "i principi fondamentali del sistema radiotelevisivo" (comma 2); ma dall'altro lato stabilisce che tale sistema "si realizza con il concorso di soggetti pubblici e privati" (ancora comma 2).

Fermi dunque i principi comuni che debbono informare il sistema, la legge del 1990 fa una netta distinzione fra il "servizio pubblico radiotelevisivo", che è "affidato mediante concessione ad una società per azioni" (oggi non più a totale partecipazione pubblica:" art. 2, comma 2), e la radiodiffusione di programmi radiofonici e televisivi che "può essere affidata mediante concessione" a soggetti privati "diversi dalla concessionaria pubblica" (art. 2, comma 1, e art. 16, comma 1), realizzando così quel "concorso di soggetti pubblici e privati" di cui è parola nell'art. 1, comma 2, della legge.

L'esistenza di un servizio radiotelevisivo pubblico, cioè promosso e organizzato dallo Stato, non più a titolo di monopolista legale della diffusione di programmi televisivi, ma nell'ambito di un sistema misto pubblico-privato, si giustifica però solo in quanto chi esercita tale servizio sia tenuto ad operare non come uno qualsiasi dei soggetti del limitato pluralismo di emittenti, nel rispetto, da tutti dovuto, dei principi generali del sistema (cfr., in proposito, la sentenza n. 155 del 2002), bensì svolgendo una funzione specifica per il miglior soddisfacimento del diritto dei cittadini all'informazione e per la diffusione della cultura, col fine di "ampliare la partecipazione dei cittadini e concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese", come si esprime il citato art. 1 della legge n. 103 del 1975. Di qui la necessità che la concessione preveda specifici obblighi di servizio pubblico (si vedano, oggi, la convenzione approvata con il d.P.R. 28 marzo 1994, e il contratto di servizio per il triennio 2000-2002 approvato con il d.P.R. 8 febbraio 2001) e imponga alla concessionaria l'obbligo di assicurare una informazione completa, di adeguato livello professionale e rigorosamente imparziale nel riflettere il dibattito fra i diversi orientamenti politici che si confrontano nel Paese, nonché di curare la specifica funzione di promozione culturale ad essa affidata e l'apertura dei programmi alle più significative realtà culturali.

In questa prospettiva si giustifica l'esistenza di una forma di finanziamento, sia pure non esclusiva, del servizio pubblico mediante ricorso all'imposizione tributaria, e nella specie all'imposizione del canone. L'altra maggiore fonte di finanziamento della diffusione di programmi radiotelevisivi liberamente accessibili (al di fuori dunque delle forme di televisione a pagamento) è infatti la raccolta pubblicitaria, la quale a sua volta, oltre che dai limiti imposti dalla legge a tutela degli utenti e degli altri mezzi di comunicazione, e dalle libere scelte degli operatori del settore e degli inserzionisti, è di fatto condizionata dalla quantità degli ascolti. Il finanziamento parziale mediante il canone consente, e per altro verso impone, al soggetto che svolge il servizio pubblico di adempiere agli obblighi particolari ad esso connessi, sostenendo i relativi oneri, e, più in generale, di adeguare la tipologia e la qualità della propria programmazione alle specifiche finalità di tale servizio, non piegandole alle sole esigenze quantitative dell'ascolto e della raccolta pubblicitaria, e non omologando le proprie scelte di programmazione a quelle proprie dei soggetti privati che operano nel ristretto e imperfetto "mercato" radiotelevisivo.

E' questa caratteristica del servizio pubblico radiotelevisivo, chiaramente ricavabile dal sistema normativo, che offre fondamento di ragionevolezza alla scelta legislativa di imposizione del canone destinato a finanziare tale servizio: mentre esulano, evidentemente, dall'ambito della questione proposta le valutazioni circa l'adeguatezza in concreto dell'attività svolta alla natura dei compiti affidati al servizio pubblico.

5.- Il giudice a quo, pur ricordando che l'eccezione di legittimità costituzionale sollevata dalla parte ricorrente concerneva inizialmente le modalità imposte dall'art. 10 del r.d.l. n. 246 del 1938 al possessore di apparecchio che intenda liberarsi dall'obbligo di pagare il canone, non sviluppa poi specifiche censure a questo proposito.

Egli lamenta bensì il fatto che l'obbligo colpisca l'utente per il solo fatto di possedere un apparecchio potenzialmente atto a ricevere le trasmissioni della concessionaria del servizio pubblico, "e, per assurdo, anche nel caso che la ricezione risulti, di fatto, impossibile". Ma il collegamento dell'obbligo di pagare il canone alla semplice detenzione dell'apparecchio, atto o adattabile alla ricezione anche solo di trasmissioni via cavo o provenienti dall'estero (art. 15, secondo comma, della legge n. 103 del 1975: e cfr., per la sottolineatura del rilievo di questa norma, la sentenza n. 535 del 1988), indipendentemente dalla possibilità e dalla volontà di fruire dei programmi della concessionaria del servizio pubblico, discende dalla natura di imposta impressa al canone, che esclude ogni nesso di necessaria corrispettività in concreto fra obbligo tributario e fruizione effettiva del servizio pubblico. E dunque anche sotto questo profilo la questione, riferita all'art. 3 della Costituzione, si palesa infondata, per le stesse ragioni già enunciate da questa Corte, sia pure con riguardo ad una questione allora sollevata in riferimento al solo art. 53 della Costituzione, nelle citate ordinanze n. 219 e n. 499 del 1989.

Parimenti non è fondata la censura di disparità di trattamento tra chi riceva le trasmissioni televisive attraverso la normale televisione e chi eventualmente le riceva con altri mezzi, o non le riceva affatto. Ancora una volta, ciò che viene in rilievo, come presupposto dell'imposizione, è la detenzione degli apparecchi (ed è questione di mera interpretazione della legge stabilire quali siano tali apparecchi), non rilevando, ai fini della costituzionalità di tale imposizione, la circostanza che l'utente riceva o meno le trasmissioni del servizio pubblico. E la scelta legislativa discrezionale di fondare l'imposizione (genericamente) sulla detenzione di apparecchi atti o adattabili alla ricezione di trasmissioni radiotelevisive non appare irragionevole.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 1, 10 e 25 del regio decreto legge 21 febbraio 1938, n. 246 (Disciplina degli abbonamenti alle radioaudizioni), convertito dalla legge 4 giugno 1938, n. 880, e degli articoli 15 e 16 della legge 14 aprile 1975, n. 103 (Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva), "e norme ivi citate", sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 9 e 21 della Costituzione, dal Tribunale di Milano con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2002.

Depositata in Cancelleria il 26 giugno 2002.

Autore: E-ius


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