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Sei in: Approfondimenti Marchi, brevetti e nomi a dominio
Il nome a dominio: nè marchio, né insegna, ma segno distintivo atipico
E’a tutti noto il travaglio giurisprudenziale che ha caratterizzato il tentativo di una soddisfacente qualificazione in termini giuridici del nome a dominio. Nondimeno, la dottrina che si è accostata al problema non è riuscita a a comporre la querelle in termini più appaganti.

A parziale giustificazione si potrebbe invocare la “novità” (ma è poi ancora così?) della materia, la quale ad oggi non ha avuto una specifica regolamentazione normativa a livello legislativo. O, forse più realisticamente, la constatazione che le pronunce edite sono unicamente di merito e, pertanto, la Suprema Corte non ha ancora potuto esercitare la propria funzione nomofilattica, ex art. 65 Ord. Giud.

Anzi, a ben considerare, le pronunce sono in massima parte ordinanze cautelari, pronunciate a definizione di ricorsi ex art. 700 c.p.c. o anche ex artt. 61-63 R.D. 21 giugno 1942 n. 929: l’inevitabile sommarietà dei provvedimenti in parola – che, per i profili strettamente giuridici, si traduce nel mero accertamento della possibile fondatezza della pretesa del ricorrente (c.d. fumus boni iuris) – comporta in vari casi una eccessiva stringatezza delle argomentazioni che sorreggono il dispositivo.

Sembra ora opportuno ripercorrere – seppur sinteticamente – il “cammino giurisprudenziale” cui si è fatto cenno in precedenza, facendo sin d’ora ammenda se verranno reiterati concetti ben noti a chi si occupa abitualmente di tali temi.

Costituisce ormai principio consolidato che “per la sua capacità di identificare l’utilizzatore del sito web e di servizi da essi offerti al pubblico, il domain name assume le caratteristiche e la funzione di un vero e proprio segno distintivo” (così, efficacemente, Tribunale di Napoli, 24 marzo 1999, caso “Playboy”).

C’è invece incertezza (perplessità?) nell’individuazione del “tipo” di segno distintivo cui il DN è riconducibile.

In particolare alcuni Tribunali, investiti della questione prevalentemente con ricorsi ex art. 700 c.p.c., hanno assimilato (più o meno esplicitamente) il nome a dominio al marchio, applicando di conseguenza le norme del R.D. 929/1942.
(Tribunale di Roma, 02.08.97, caso “Porta Portese”; Tribunale di Verona, 25.05.99, caso “Technovideo”; Tribunale di Reggio Emilia, 30.05.00, caso “Miss Italia”).

Altre decisioni, invece, identificano il DN all’insegna, sostenendo che il primo svolge l’identica funzione della seconda di contraddistinguere il luogo virtuale in cui l’imprenditore offre i propri prodotti o servizi al pubblico.
(Tribunale di Milano, 10.06.97, caso “Amadeus”; Tribunale di Modena, 01.08.00, caso “Modena on line”; Tribunale di Ivrea, 19.07.00, caso “Italia Online”).

Marginale (e, tra l’altro, a mio parere non condivisibile) resta l’accostamento alla testata giornalistica (v. Tribunale Viterbo, 24 gennaio 2000, secondo cui “un sito del sito web può essere equiparato ad una rivista od altra pubblicazione cartacea: con una home page identica alla copertina, il nome della testata assimilabile al DN, e le ulteriori pagine del sito identiche alle pagine che si sfogliano in una rivista tradizionale”).

Le pronunce italiane, in ogni caso, sembravano riproporre, più o meno pedissequamente, l’orientamento già delineato dalle Corti d’oltre Oceano e parevano comunque “marciare in un’unica direzione”, perché – come abbiamo visto – il DN è stato parificato al marchio o quanto meno all’insegna e sono state ritenute applicabili la normativa di cui al R.D. 11 giugno 1942 n. 929 e le disposizioni codicistiche in tema di concorrenza sleale.

Tutto ciò fino all’estate del 2000, quando un’ordinanza del Tribunale di Firenze (seguita a breve distanza da un’altra pronuncia del medesimo Tribunale) ha rotto il fragile equilibrio che si era venuto a creare.

Ed infatti, riprendendo nei contenuti una decisione del Tribunale di Bari del lontano 1996, il Tribunale di Firenze, con ordinanza 29 giugno 2000 (relativa ad DN “sabena.it”), ha assimilato il nome a dominio a un mero indirizzo più che ad un segno identificativo di un soggetto.

Questo assunto ha come conseguenza, di grande rilievo pratico, che non potrebbe porsi per esso un problema di violazione del marchio d’impresa.

L’orientamento giurisprudenziale testè descritto, che definirei “miopemente webcentrico”, è a mio avviso assolutamente da ripudiare, perché non coglie la differenza tra ciò che il dominio è e l’uso che di esso viene fatto. Paiono illuminanti, sul punto, le parole di Menchetti, secondo cui “il domain name in quanto tale è una “risorsa pubblica” (può, tutt’al più essere assimilato ad una risorsa di numerazione del settore delle telecomunicazioni, e non a un diritto di proprietà industriale); la protezione del marchio o del diritto d’autore viene infatti effettuata in relazione all’uso del domain name in modo confusorio o comunque in violazione dei diritti di proprietà industriale” (Menchetti, tratto dalla relazione tenuta a Milano il 19 marzo 2002 nell’ambito del convegno organizzato da IIR, Istituto di Ricerca Internazionale).

Qualche mese più tardi altra pronuncia, sempre del medesimo Tribunale (Trib. Firenze, Sez. Distaccata di Empoli, ord. 13 novembre 2000: Blaupunkt // Nessos Italia S.r.l.), ha sostanzialmente riproposto l’abnorme principio poc’anzi ricordato.

In particolare, quest’ultima decisione ribadisce l’assenza di un carattere distintivo del dominio Internet sancito da una norma di legge, ritenendo che esso debba essere valutato unicamente sulla base delle regole di Naming.

La conclusione, a mio parere, non è persuasiva. Non tanto perché si pone in contrasto con la giurisprudenza assolutamente prevalente, ma perché non tiene conto del complesso e armonico sistema dei segni distintivi, preferendo invece trincerarsi sull’assenza di norme disciplinanti il fenomeno nuovo. Arrestarsi a questa considerazione mi pare superficiale: giova, invece, ricordare che il nostro sistema normativo – anche a fronte di innovazioni vissute dai contemporanei come rivoluzionarie – ha sempre trovato in se stesso i rimedi (gli “anticorpi”), assimilando (e quindi dando veste giuridica) al fenomeno nuovo.

Larga parte della dottrina ha subito mostrato il suo disappunto nei confronti dell’impostazione giurisprudenziale toscana, definita una visione riduttiva del fenomeno dei nomi a dominio, la quale non riesce a scorgere la reale funzione che questi svolgono, soprattutto nel caso di soggetti imprenditori.

Internet – si è in altre parole fatto notare – non è solo un sistema di interconnessione di computer in cui circolano informazioni. Esso è invece anche un immenso “mercato virtuale”in cui è possibile mettere a disposizione degli utenti i propri beni o servizi: il dominio assurge, pertanto, ad elemento distintivo atipico dell’imprenditore che opera nella rete.

E’da dire – e ciò conforta chi scrive - che le ultime pronunce sembrano essere ritornate a riproporre l’orientamento tradizionale (e cioè non dubitano dell’appartenenza del domain name alla categoria dei segni distintivi).

Anzi, è significativo il fatto che l’inversione di rotta giunga proprio dal Tribunale di Firenze che, in sede di reclamo di uno dei provvedimenti prima citati, muta – re melius perpensa – il proprio orientamento, così “cicatrizzando” la ferita che l’insegnamento toscano aveva provocato alla “stabilità” del sistema interpretativo tradizionale.

Ed invero l’ordinanza 21-28.05.01 afferma a chiare lettere che “il domain name svolge, oltre alla funzione specifica nell’ambito dei codici comunicativi, anche la funzione ulteriore di segno distintivo dell’impresa. (vedasi, nello stesso senso, Tribunale di Siracusa, Sez. Dist. Lentini, 23.03.01).

Giurisprudenza recente, forse consapevole della difficoltà di dare una risposta appagante al problema della qualificazione giuridica del dominio, esce dall’impasse con la considerazione che “ben poca importanza – ai fini dell’applicabilità della Legge Marchi - può avere lo stabilire se il nome a dominio vada qualificato come marchio, come insegna o come segno atipico, considerato il principio di unitarietà dei segni distintivi desumibile dall’art. 13 L.M. (così Tribunale di Monza – Sez. Distacc. Desio – 14 maggio 2001, caso “Doctor Glass”; si veda, ancora, in termini sostanzialmente analoghi, la sentenza del Tribunale di Napoli, 26 febbraio 2002, caso “Playboy”).

Va comunque osservato che la giurisprudenza più accreditata sembra ricondurre il DN alla figura del “segno distintivo atipico”: il DN, in altre parole, sarebbe il segno distintivo atipico dell’imprenditore che opera nella rete, la quale costituisce un immenso mercato virtuale (in questi termini: Tribunale Cagliari, 25.12.00, “caso Andala”).

Quest’opzione interpretativa è stata da ultimo ripresa dalla recentissima sentenza (a quanto consta, la prima in materia) del Tribunale di Napoli 26.02.2002, citata in precedenza (caso Playboy).

Si rendono necessarie, a questo punto, alcune precisazioni.

I Tribunali hanno ricollegato l’asserita “atipicità” del nome a dominio al fatto che manca per esso una disciplina legale tipica. Il dominio è un segno distintivo atipico – si suole ripetere – perché non oggetto di specifica regolamentazione normativa. Mi sembra un’intuizione francamente banale e non appagante.

Personalmente ritengo il dominio “segno atipico” non solo – e non tanto! – perché non previsto dalla legge e dunque creato dalla pratica, ma in quanto segno davvero “innovativo”, irriducibile ai segni preesistenti.

Questa ricostruzione è stata prospettata anche da Terrano, che afferma efficacemente che “la portata distintiva connessa ai nomi a dominio può considerarsi per c.d. plurima e in quanto tale atipica”.

Mi sembra riduttivo, in altre parole, qualificare il DN come un semplice marchio, piuttosto che l’insegna del luogo virtuale dove l’impresa opera in Rete. La sua valenza distintiva è invece più ampia, poiché è un segno che riesce potenzialmente ad assommare in sé la portata distintiva della ditta, della denominazione sociale, del marchio, dell’insegna…

Il dominio, in altre parole, è lo strumento distintivo che contraddistingue le “manifestazioni virtuali” dell’impresa: uno strumento davvero innovativo, capace di offrire all’imprenditore soluzioni “tailor made” (su misura), davvero impensabili prima dell’avvento di Internet.

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Autore: Luca Giacopuzzi


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